sabato 29 gennaio 2022

Di viaggi – narrati e vissuti - attraverso i 4 e piú regni della Thailandia

Avete mai letto un libro e sognato di poter ripercorrere dal vero la mappa dei luoghi e degli incontri, ritrovare le emozioni, gli odori, le persone narrate, magari come se foste davvero insieme ai protagonisti? A me è capitato spesso.

E per una volta, sono riuscita a farlo davvero. Il libro in questione è “Quattro regni” di Kukrit Pramoj. Un libro che raccomando spassionatamente agli amanti dei romanzi storici, ma anche piú in generale della storia, agli appassionati o curiosi della Thailandia e dell’Asia, delle saghe familiari alla Marquez, e di come la Grande Storia entra nella storia individuale di persone e famiglie. Un libro che mi è stato suggerito tante volte e da tante persone diverse. Ma i libri si fanno leggere quando è il loro momento. E credo che questo fosse il suo. Qualche mese fa, ho trovato una bellissima copia del libro nel mio negozio dell’usato preferito vicino a casa qui a Bangkok, e l’ho comprata al volo. L’ho letto aprendo la prima pagina con un tocco di superba diffidenza, come succede (almeno a me) con libri che sono rimasti in sospeso per lungo tempo, per ritrovarmi poi ritrovata catturata dalla storia narrata. Ho letto il libro mentre andavo a fondo nella scoperta di  Bangkok, proprio come si scopre una città - ma anche una persona-, poco a poco, pagina per pagina, senza fretta, aggiungendo dettagli e ricomponendo i pezzi del puzzle. La scoperta dal vero della città si è fusa a quella attraverso il libro. Ho letto questo libro come si legge una guida turistica quando sei già sul posto, cercando conferme, dettagli, ma anche come si legge un romanzo, e come si leggono degli Annali Storici. Tutto insieme.

Ho scoperto e riscoperto Bangkok attraverso gli occhi di Phloi, anti-eroina per eccellenza, rappresentante un modello di donna che è l’opposto del mio, un modello che per certi versi è proprio tutto quello contro cui combatto, ma che forse proprio per questo mi ha aiutato ad andare oltre al mio sguardo, alla mia prospettiva. Soprattutto se volevo, come desideravo, avvicinarmi e scoprire davvero un mondo e una città che sono all’opposto di tutto quello da cui provengo. Necessità di uscire da me, e di farmi guidare proprio dalla persona che meglio incarnava lo sguardo, i sentimenti, il sentire di una giovane donna nella Bangkok della prima metà del XX secolo. Un’antieroina che sembra insipida, debole, cosi all’antica e retro’, soprattutto se paragonata a tanti altri personaggi del libro, molto piú vividi, attivi, accattivanti, ma forse proprio per questo, capace di dare spazio e lasciare emergere la città e tutto il mondo intorno a lei, invece che dominarlo. La Bangkok che ho scoperto è un intricato e profondo mondo di aneddoti, di particolari, di riti culturali, culinari, vestiari, religiosi, di fatti storici che non conoscevo. Una relazione con l'Europa complessa, cosi come quella con la regalità. Sono i dettagli a rendere unica ogni esperienza, ogni persona, ogni città. Ho pianto e ho riso. Non volevo lasciare il libro, come non si vuole abbandonare la propria città, come non si puó abbandonare qualcosa che è diventata la tua quotidianità.

E’ buffo, vivere la stessa città a circa 100 anni di differenza. Gli anni sono passati, la storia è avanzata, ma tanti luoghi di allora esistono ancora, anche se con funzioni diverse. Vedere i posti di cui Phloi parlava non mi bastava piu. Volevo provare davvero a “ripercorrere i suoi passi”, vivere qualche giorno della sua vita. C’è un passaggio nel libro – uno tra i tanti – in cui si racconta di quando Phloi insieme all’amica del cuore accompagna il sovrano e tutta la corte da Bangkok al vicino villaggio di Bang Pa-in, sede della residenza estiva regale. Il Summer Palace fu davvero costruito sul modello delle residenze reali europee, data la grandissima ammirazione che il sovrano aveva sviluppato per l’Europa, soprattutto dopo i tanti mesi passati li. Questo viaggio, per quanto “piccolo” è un episodio marcante nella vita di Phloi e uno di quelli che mi è rimasto piú impresso. Lo stupore, l’emozione, l’eccitazione, l’incanto provato da Phloi mi sono entrati nel cuore. E non solo a me.

Insieme ad un’amica che stava – anche lei - leggendo il libro, abbiamo deciso di ripercorrere il viaggio di Phloi. Un tragitto di poco conto, in un luogo che non dice nulla ai piu’, sopratutto se paragonato a tutti i luoghi da favola della Thailandia, ma che per noi aveva un grande significato emotivo.

Abbiamo preso il treno dalla stazione di Hua Lamphong. La stessa da cui era partita Phloi, la stessa che è stata bombardata durante la seconda guerra mondiale. Ancora in funzione, anche se per poco. Dovrebbe essere convertita in museo tra pochi mesi. Abbiamo preso un biglietto Bangkok-Ayutthaya per 20 bath, neanche 1 euro, per 2 ore di viaggio attraverso la campagna. Le uniche due europee, insieme a una variegata umanità di studenti in viaggio per le vacanze di fine anno, pendolari, famiglie. 2 ore di passaggio ininterrotto di venditori di tutti i tipi di cibo, da strani spaghetti colorati dolci, spiedini di carne, sticky rice, succhi di frutta e milkshake ghiacciati. Un viaggio lento, che permette di assaporare non solo il cibo ma anche il paesaggio.

Avevamo deciso di aggiungere un fuori programma rispetto all’itinerario di Phloi, siamo arrivate fino a Ayutthaya (di cui ho parlato in un post precedente) dove abbiamo passato la sera e la notte, regalandoci un tour serale in bicicletta tra i templi illuminati nella notte buia e silenziosa. Poesia pura.


La mattina dopo eravamo di nuovo in stazione, per raggiungere (o meglio tornare indietro) a Bang Pa-In. Il tragitto Ayutthaya - Ban Pa-in, 20 minuti di viaggio, lo si fa per 2 bath. Con un tuk tuk abbiamo raggiunto l’ingresso del Summer Palace. Un strano sentimento di riverenza e confusione. Come quando entri a casa di qualcuno e il padrone di casa non è (pi
ú) li. Entrare in un posto che avevamo lasciato (nel libro) cosí pieno di vita, e trovarlo vuoto. Perfetto ma senza vita. Come quando arrivi in ritardo ad una festa, finita, con gli ospiti già partiti, i piatti lavati, tutto rimesso in ordine. Un po’ come nel regno della Bella Addormentata. Tutto si è fermato. Ma si sa, o si sente, che nulla è morto, solo in attesa che la principessa si svegli, che il re ritorni. E che la vita riprenda. Abbiamo camminato attraverso il meraviglioso giardino perfettamente rasato, con siepi tagliate in forma di animali fantastici; attraverso i diversi padiglioni, i ponti, le statue neoclassiche, le fontane. Un grande senso di spaesamento nel ritrovare arrchitetture europee cosí familiari ma in un contesto in cui non te le aspetti assolutamente. Edifici di impronta asburgica, inglese, dell’epoca di Caterina di Russia e Pietro il Grande accanto a un mirabolante tempio cinese rosso fuoco, stupe thailandesi e un faro che sembra trasportato dalla costa inglese. Credo di avere capito cosa deve avere provato Alice nel suo paese delle meraviglie. Naturalmente, c’è ampio spazio per gli aneddoti: il piccolo cottage sul lago, dove – secondo fonti attendibili – il sovrano amava cucinare personalmente per i soldati.  Come ci ha detto la nostra guida “era un cuoco sopraffino”. Quando gli abbiamo chiesto “ a detta di chi?”, ci ha risposto sicuro “oh, testimonianze scritte dei sudditi lo riportano!”. Vorrei vedere che si sarebbe permesso di dire il contrario..  (Se cercate su google, trovate anche qualche foto!)

Finito il tour tra le residenze, abbiamo attraversato il fiume e ci siamo ritrovate nel quartiere dei monaci e dei templi, fatto costruire proprio perche il sovrano voleva che i riti potessere essere celebrati sul posto, senza dover rientrare a Bangkok o Ayutthaya. Le casette ordinate dei monaci, con i panni arancioni stesi ad asciugare lungo il fiume, è uno dei momenti di maggiore pace provati durante il viaggio. Mentre il tempio buddista costruito sul modello di una chiesetta francese – con all’interno un Buddha al posto del Crocifisso- confesso che è stato abbastanza “disturbante”. Di nuovo questo senso di spaesamento e confusione che viene dall’incontro e fusione di culture cosí distanti e diverse.  

Siamo rientrati ad Ayuttahya in barca, une delle tradizionali barche in legno lunghe e strette. Come aveva fatto Phloi. Cullata dal ritmico movimento dell’acqua mi sono lasciata trasportare da pensieri, come immersa tra il passato conosciuto attraverso un libro, e il presente vissuto di persona. Fusione di storie e emozioni grazie alla magia della condivisione. Pensavo ai sentimenti di Phloi, al suo stupore, alla sua meraviglia. Li paragonavo ai miei. Cosí diversi e cosí simili.

Poche persone sulla riva, case in legno, terrazze sull’acqua, reti, barche. Lo stesso ambiente a 100 anni di differenza. Tutto apparentemente uguale, e tutto continuamente diverso, nei dettagli, nell’evolvere delle singole vite, nella diversità delle prospettive. Ancora una volta, mi sono sentita meravigliosamente parte di un Tutto piú grande di me. Ho sentito l’incanto della vita che scorre in ognuno di noi, la meraviglia di concepire la nostra esistenza mai solo come individuale, ma come connessa con le storie che ci hanno preceduto e che seguiranno.

Ogni viaggio nel passato è sempre anche un viaggio alla scoperta del presente e di preparazione al futuro.

martedì 28 dicembre 2021

Ode alla magia - che per fortuna non vive solo nelle favole


La magia ha sempre avuto una parte importantissima nella mia vita. Un privilegio che considero enorme. Sono cresciuta immersa nella magia, sotto forma di fiabe della buona notte (e di tanti altri momenti della giornata), racconti, favole.. assimilate sotto ogni possibile forma. Lette, raccontate, inventate apposta per me da parenti piú o meno fantasiosi e tutti con un proprio tratto narrativo, e in particolare da una nonna a cui devo come eredità la verve creativa. Ascoltate sul giradischi di una prozia all’ora del the pomeridiano, o in auto in audiocassetta mentre andavo alla lezione di nuoto. E infine inventate e scritte da me stessa quando sono diventata un po’ piú grande. Racconti gioiosi e tristissimi, racconti che restano in sospeso, con una morale o no, ma dove c’era sempre fortissima la presenza della magia. Magia come creazione, incanto, come qualcosa che porta la vita un po’oltre la comprensione logica, qualcosa che ti sorpassa.

Eppure, nello stesso tempo, è come se mi/ci fosse stato insegnato che dalla magia ci si debba sempre un po’ guardare. Che la magia appunto vada bene (solo) per i bambini. Un vezzo da relegare all’infanzia, ad uno spazio a parte rispetto alla vita “vera”, adulta. Come se crescendo bisognasse mettere da parte lo stupore, e il diventare adulti comportasse naturalmente il lasciare andare quella parte piú irrazionale, magica, “straordinaria” della vita e di noi stessi.

Il mio ultimo viaggio in Tailandia mi ha ricordato, di nuovo, come la magia possa e sia parte naturale e fondamentale del nostro quotidiano, della nostra vita – non importa quanti sforzi facciamo per dimenticarlo. E di quanto questo renda la nostra vita molto piu piena, ricca, viva.

A Cheow Lan Lake, ho visto, ho sentito quella magia sulla mia pelle. Mentre attraversavo il lago a bordo della nostra barchetta, era come ascoltare, ritrovarmi di nuovo in una delle mia favole da bambina, ma esserci davvero dentro. Era come se la magia uscisse dai libri di favole e prendesse forma nella realtà, rendendo animato, vivo lo spazio nel quale mi trovavo. Facendo quello che fa la magia. Dando un tocco, una sfumatura, una sensazione che qualcosa di piccolo ma meravigliosamente potente stia colorando la tua vita. Che mille sumature, scintille arricchiscano il tuo presente.

Il lago di Cheow Lan è una piccola “perla” nel parco nazionale di Khao Sok, una spazio incantato fatto di foreste, montagne color smeraldo, una flora e una fauna incredibile, fiumi, rocce, grotte. In realtà si tratta di un lago artificiale, nato in seguito alla costruzione della diga di Ratchaprapa Dam nel 1982. E’ la diga che ha permesso la nascita di questo spazio unico, in cui l’acqua ha sommerso una parte della foresta circostante, lasciando emergere dall’acqua color smeraldo le rocce calcaree ricoperte di vegetazione per centinaia di metri. Come cavalieri solitari che sembrano brandire le loro spade e scudi contro nemici immaginari, pronti a difendere principesse o castelli altrettanto immaginari.

Avevo visto le foto del lago e me ne ero innamorata. Ma non mi aspettavo l’effetto dell’essere fisicamente li.  Quando la barca ha preso il largo e ci siamo ritrovati in mezzo al lago, è come se  mondo intorno si sia trasformato, ammutolito. I rumori, le voci degli altri viaggiatori messi a tacere, o ovattati, distanti. Ero li, e non ero piu lí, come trasportata in un altro luogo, fuori dal tempo e dallo spazio. Una sorta di Lago di Morgana del ciclo di arturiana memoria. Piu volte mi sono ritrovata a pensare che non mi avrebbe stupito vedere emergere dall’acqua la spada Excalibur, o lo stesso Merlino, Morgana, o qualche cavaliere perdutosi durante la sua personale ricerca del Grahal. Puo fare sorridere tutto questo, immagino. Pazienza. Io custodisco come un dono prezioso la bellezza di un luogo incantato, davanti a cui ritrovarsi, come in un incantesimo, a restare in silenzio, ad abbassare la voce, a guardare quello che hai intorno, sentire il mistero, potente, sfuggente, ma mai feroce o pericoloso. Solo, piú grande di te.

Mentre proseguivamo nella nostra traversata, ai nostri lati, il rapido e maestoso susseguirsi delle montagne dalle pareti ora ricoperte di vegetazione, ora ripide ed erose dal vento, dagli anni, dalla pioggia e dal sole. Grotte che si aprivano sull’acqua evocanti il mistero di avventure magiche – almeno alla mia fervidissima immaginazione. Elefanti che comparivano tra le fronde degli alberi sui pendii delle montagne intorno al lago, pesci volanti dalle squame brillanti, uccelli dai colori vividissimi, il vociare dei compagni di viaggio sostituito da versi e suoni della natura, l’immensità del cielo, l’imponenza delle rocce, lo scintillio del sole sull’acqua alternati da momenti di livido cupore quando le nuvole lo coprivano, in lontananza una sottile nebbiolina provocata dall’umidità. Un brivido nel sentire la pressione delle onde sulla nostra barchetta, quando si avvicinava troppo alle rocce.

Cosa si nasconde in quelle grotte? Cosa si nasconde tra quegli alberi? Tra quelle ombre odorose? Una di quelle grotte l’ho davvero visitata. Umidità, pipistrelli, ragni, stalattiti. Ma oltre a quello, e piú importante, la sensazione che il vero mistero nascosto, la vera risposta alla domanda “chissa cosa si nasconde li dentro!?”, non sia qualcosa da trovare, a cui dare una risposta certa. Ma proprio il lasciare la domanda aperta. “Accontentarsi” di una percezione, un’emozione a cui non sapiamo dare un nome. Non è cosi che ci lasciano un po’ le fiabe?

Tornando a casa, quel giorno, in silenzio e goffa nel rimettere i piedi sulla terra ferma, mi sono portata dentro lo sguardo beffardo misterioso e ammaliante di quella natura.

Ho trovato ancora piu divertente pensare che per una volta, proprio il lavoro dell’uomo, la sua voglia/bisogno di sottomettere la natura ai suoi fini, abbia permesso proprio alla magia di trovare spazio. Dando vita a un luogo da incantesimo. Un luovo dove tutto è possibile, dove la mente pu
ó creare, immaginare, oltre a quello che vediamo. Dove ci puó essere spazio per gnomi e folletti e principesse e rospi che diventano principi. Declinati in qualunque forma a seconda della cultura che li partorisce. Ció
che conta è la possibilità lasciata all’immaginazione di prendere forma.

Ovviamente, vorrei che molti potessero vedere e godere di questo posto incantato allo stesso modo di come ho fatto io. Ma non c’è bisogno di venire a Cheow Lan Lake per trovare la magia. La magia credo nasca ogni volta in cui ci permettiano di ricordarci che la vita non è solo lavoro e obbligi e routine e orari da rispettare, ma che c’è sempre qualcosa che ci sfugge, qualcosa che puo farci vedere e immaginare quello che non c’è. A 30 anni, come a 10, 40, 60. Abbiamo sempre questa possibilità. Lasciamole la porta aperta.

 


domenica 5 settembre 2021

Ayutthaya, La rivincita del tempo

Ho sentito parlare per la prima volta di Ayutthaya durante il mio primo soggiorno a Bangkok nel 2017, quando, avendo un weekend libero e dovendo trovare qualcosa da fare, alcuni colleghi avevano parlato di questo “sito storico da visitare assolutamente”. La descrizione era un po’ fumosa, ed io ero rimasta, confesso, un po’ scettica. Mi era sembrata una gita per turisti “alle prime armi”, desiderosi di tornate a casa con foto pittoresche e incredibili aneddoti su vestigia del passato raccolte in una specie di parco dei divertimenti archelogico. Forse, non volevo semplicemente ammettere di non sapere nulla a proposito 😉

All’epoca, avevo preferito sfruttare il tempo per immergermi nella vita densa, e ben piú caotica della città, io che non amo il caos delle metropoli, ma che sono sempre molto curiosa di scoprire la vita delle persone. Non me ne pento, anche grazie alla presenza della mia straordinaria guida in quell’occasione, un collega thailandese che mi aveva aiutato davvero ad entrare nella storia della città.

Tornata in Thailandia, ho deciso di dare una chance ad Ayutthaya, rendendomi appunto conto di non saperne nulla, come quasi nullla sapevo (e tuttora so) della storia culturale, sociale, politica di questa regione - che è difficile racchiudere nei confini nazionali attuali. Quanti pregiudizi, e quanta superbia.

Sono rimasta incantata. In quello che ai miei occhi è apparso come il giardino di un paradiso perduto, un paradiso in rovina, dove i tratti dell’antica bellezza sono allo stesso tempo cosi vividi e cosi sfumati in un contrasto quasi doloroso. Camminando tra quelle che erano le strade di una cittadella imperiale, e tra le stanze di palazzi e stupe (templi), sono rimasta incantata e persa davanti a quelle incisioni, a quelle statue, a quella bellezza imponente e allo stesso tempo delicata e accuratissima. Un labirinto accessibile pensato per rappresentare il culmine della potenza umana, per sostenere e corroborare il potere di una regno, dargli una degna “dimora” fisica. Con il “divino” chiamato a testimone, nelle vesti di centinaia di buddha di tutte le taglie e posizioni, protettori e guardiani di quel potere. Forse, anche con l’implicita fiducia che quel sostegno fosse un dato assodato. O forse sperando che proprio nel dargli una dimensione fisica, quel potere fosse davvero reale, destinato a durare in eterno.

Per un attimo, mi sono venute alla mente le lezioni del liceo sull’ubris greca. L’eccesso di superbia umana, il volere andare troppo oltre, oltre gli stessi dei. E lo so che qui siamo in un contesto filosofico completamente diverso, ma la mente gioca sempre strani scherzi.

La bellezza dell’arte umana, e nello stesso tempo, la sua fragilità, il suo essere effimera. Perchè proprio quando vuoi dare una forma fisica (e piú forte) ai tuoi sogni, quel sogno comincia a sgretolarsi.

I sorrisi placidi e beffardi dei Buddha, su corpi (i loro) ormai in disfacimento, scheggiati, sfregiati, mi hanno suggerito proprio quello. Per la prima volta in vita mia, degna erede di un popolo abituato a vivere nell’ombra di antiche glorie, ho realizzato come la bellezza del passato, per quanto o forse proprio in virtú della forza che testimonia, possa essere estremamente triste. Testimone di uno splendore che non c’è piú, e della caducità della vita, di sforzi vani contro qualcosa di ineluttabile.

Mentre camminavo per i vialetti e l’immenso parco, immersa nel silenzio del luogo, ho provato una grande malinconia, ma anche estrema pace, riposo, abbandono. Avrei potuto restare cosi per ore, come dentro una magia che non so spiegare. Perchè questo “risveglio” non ha portato solo tristezza.

Quel regno è passato. Che cosa è rimasto dello splendore della città? Non certo príncipi o regine. Resta il tempo. Il tempo che erode e che lascia il suo marchio sulle cose, le persone, le costruzioni. Restano gli alberi, il sole, la pioggia. La dirompenza di una natura lussureggiante che tutto avvolge, e che ricama le rovine dei palazzi, le teste dei buddha scalfite, le ingloba in un’opera d’arte ancora piu bella e completa. E quesgli sguardi sfuggenti e quei sorrisi beffardi ridotti a metà sembravamo dirmi proprio quello. Il potere, la forza, anche la divinità, non la si puó imbrigliare (solo) in corpi di pietra e marmo, per quanto meravigliosi. L’arte come la vita è un guizzo che vibra e scivola via, soffia e prende forma in quello che facciamo, ma non resta mai ferma, immobile. E ci invita a seguirla, a fare altrettanto.

Ayutthaya è stata una sorta di lezione di vita, come l’Asia continua a esserlo per me. Il senso di fragilità e di inferiorità, ma anche la gratitudine per questa “scoperta”. La nostra piccolezza, ma anche la bellezza che possiamo creare e lasciare, se accettiamo di non esserne padroni o dominatori. Quel sorriso ineffabile, beffardo e dolcissimo mi accompagna, e mi invita a prendere tutto, me inclusa, con piu leggerezza, e a ricordarmi la complessa semplicità della vera opera d’arte, la vita, qui e ora.


PS. per informazioni piú dettagliate sul sito di Ayutthaya (e sul perchè valga la pena visitarlo, oltre ai miei sproloqui), si puó consultare per esempio: https://whc.unesco.org/en/list/576/

sabato 31 luglio 2021

Non tutto il male viene per nuocere

 Ho « incontrato» Bangkok per la prima volta nel 2017. Mai città mi era sembrata piú sfavillante, scintillante, modernissima, velocissima, città di vetro e grattacieli. Arrivavo dritta dagli altopiani della Papua Nuova Guinea e il confronto era stato choccante. Ero rimasta rapita. Grazie ad un amico tailandese avevo intravisto segni di un’altra Bangkok, piu lenta, tradizionale, fatta di incensi, di legno, di case basse, di catapecchie, di un passato che sembrava non volersi far relegare in un angolo, ma non avevo avuto modo di approfondire. Solo qualche giorno di permanenza. Mi era rimasta nel cuore la sensazione di una città incantata, che avrei voluto conoscere meglio.

Siamo tornati a Bangkok a maggio 2021. All’arrivo, un gruppo sparuto di passeggeri occidentali dai profili alquanto peculiari. Oltre a noi, alcuni uomini in tenuta kaki, dal possibile profilo militare, o mariti di donne tailandesi, pochi altri civili probabilmente impiegati per altre ONG ; il resto dei viaggiatori tailandesi. Nessun « turista », non la folla di vacanzieri australiani o europei in infradito e corone di fiori, pochi gli uomini d’affari. Un incontro totalemente diverso dal primo. Avvenuto attraverso una fitta rete di mascherine, vetri, passaggi obbligati dentro ad un areoporto blindato, un sistema efficientissimo di controlli che ci ha accompagnato dalla discesa dall’areo, attraverso le formalità mediche e amministrative, fino alla macchina dai vetri oscurati che ci ha portato dritti in uno hotel approvati in cui passare i 12 giorni di quarantena. Non ho neanche fatto in tempo ad annusare l’aria.

Le due settimane di quarantena sono state una tortura, per me che necessito di aria e movimento. Ma soprattutto per la mia “fame” di immergermi nella vita della citta. Uscita, ho trovato un città molto diversa dal mio ricordo. Chiuso tutto, musei, palazzi, bar, ristoranti, karaoke, centri per massaggi e sale da the. Era come se la città fosse il fantasma di se stessa, o di quella che avevo intravisto nel 2017. Era come se non ci fosse piú posto per la Bangkok di qualche anno fa. Una Bangkok in cui potevano esistere posti come un ristorante che serve solo « sea food and champagne”. Oggi naturalmente chiuso.

Peró forse questo permette ad un’altra Bangkok di emergere, piu autentica, piu antica, o forse semplicemente piu coriacea e semplice. Fatta dei « suoi » abitanti che continuano a fare quello che hanno sempre fatto: condurre una vita alla giornata, fatta di piccoli commerci, di vendita al dettaglio, di carretti del gelato che si annunciano con un campanello, di cibo da strada, perche la gente qui vive e sopravvive cosi. Forse semplicemente questa Bangkok, messa in disparte per lungo tempo, si riprende il suo spazio, il suo palcoscenico. La citta si adatta, si adatta alle restrizioni, al coprifuoco (incredibile per una città che davvero viveva 24 ore su 24), a una vita che sicuramente le sta stretta, non le si conface, ma dove c’è sempre il modo di fare emergere qualcosa di viscerale, di proprio, che nessuna pandemia riuscirà mai a fermare. Un esempio. I monaci buddisti portano la mascherina. Ma restano in strada, con le loro lunghe tuniche arancioni, ricevendo ghirlande di fiori che continuano ad essere create con maestria da vecchietti con la mascherina, e un po' di frutta che continua a crescere succulenta. Non so se tra le preghiere fatte dai devoti, oggi si sia aggiunta quella per la fine della pandemia.

Hanno chiuso i parchi, e allora per poter continuare a camminare e non chiudermi in casa, esaurita l’esplorazione delle strade del mio vicinato (pericolossime per il traffico – quello non cala- e inquinatissime), mi sono messa a camminare sempre un po' piu lontano, per scoprire angoli sempre nuovi della città. Cammino lungo i canali di questa Venezia dell’Asia, dove, come a Venezia, l’odore dell’acqua stagnante si mescola a quello del sapone da bucato dei panni messi a stendere, con in piú l’aggiunta del profumo di spezzatini di carne dalla dubbia origine e verdure al cocco.

Cammino per le strade trafficate, un rischio che mi permette di scoprire sempre nuove sfumature della città e dei suoi abitanti. Guardo le donne e gli uomini cucinare in strada, tagliare il cocco, preparare gli spiedini di pesce messi a cuocere sulla brace o friggere nell’olio caldo mentre ci sono 40 gradi e un’umidità al 80%, infilo spudorata la testa dentro le bottegucce e i magazzini. Gli odori si mescolano. L’odore del pesce affumicato si mescola a quello del sangue della carne di maiale, a quello delle crèpes calde, dei dolcetti al cocco e dei frangipane. I colori pure, il verde scintillante della vegetazione, il giallo intenso delle collane di fiori per le offerte votive, al grigio minaccioso di questo cielo da stagione delle piogge.  Mi sento un po' a casa. Mi torno a sentire « viva » perchè mi sembra di ritrovare la mia umanità dopo mesi di « telelavoro », dove mi sono sentita piu simile ad una macchina. Mi specchio finalmente negli occhi di persone come me, e non in un computer.

Forse è vero che mi sono persa la Bangkok degli « anni ruggenti ». Ma forse non è cosi male. C’è una poesia antica che forse era andata un po’ perduta e che adesso è piú visibile. Mi fermo davanti a scene che sembrano venire da altre epoche. Una signora che lava l’asfalto davanti alla porta della sua casa/tugurio con il mocho insaponato. Covate di gattini di qualche settimana che scorrazzano per le strade. Giovani in doppio petto o tailleurs d’ufficio che mentre vanno (andavano – prima delle ultime restrizioni) in ufficio si fermano ad accendere gli incensi nei tempietti dei cortili delle case, signore che danno da mangiare agli scoiattoli accompagnando il gesto con una preghiera salmodiata. La ressa davanti alle biciclette che espongono i biglietti delle lotterie.

Ho addirittura incontrato un indovino seduto in strada e pronto a leggermi le carte. Gli indovini di Terzani. Forse se lui lo sapesse, gli scapperebbe un sorriso compiaciuto.

Allora forse l’unica cosa che davvero mi dispiace è l’impressione di poter solo « assaggiare » questa città e la sua storia. Mi aggrappo a questo assaggio, aspettando le prossime portate.

 


lunedì 26 luglio 2021

1..2..3.. Il viaggio, e i racconti, riprendono

 

Ho deciso di tornare a scrivere su questo blog, che è stato per tanto tempo un amico, un’estensione di me, un contatto con casa quando a casa non ero, un modo per unire mondi geograficamente distanti, aiutandomi a ritrovarmi e ri-scoprirmi. Tornare a raccontare di viaggi, di incontri, ma soprattutto di come quei viaggi e quegli incontri arrichiscono, cambiano, fanno crescere.  Tornare a condividere tutto questo, perchè credo sempre piu fermamente che quei viaggi e quegli incontri non siano, e non debbano essere mai SOLO miei, ma possano arricchire, divertire, « far ritrovare » chi li legge con me.

Riprendo in mano la penna dopo anni in cui l’avevo messa da parte, per scelta piu o meno autoimposta, per dare priorità al lavoro « ufficiale », e forse in fondo in fondo per la convinzione che questo blog, questo scrivere fosse una cosa di poco conto, che non servisse a nessuno, che il suo esserci o non esserci non avrebbe fatto alcuna differenza, per gli altri, per me. Non posso parlare per gli altri, ma personalmente mi rendo conto che cosi ho finito per perdere una parte di me, di cui ho sentito e sento oggi una mancanza infinita.

Torno a scrivere come atto di difesa, ma anche di « responsabilità » verso me stessa. Impugno la penna come una sorta di arma personale, per citare Cirano. Riportare alla luce il mio sentire, ribadire a me stessa prima di tutto cio’ che sono, il mio modo di intendere e concepire la vita, la mia « umanita ». E lo faccio proprio in un momento in cui sembra che questa modalità, questo sentire non siano davvero possibili. Un periodo in cui il viaggiare è stato limitato a motivi di sola necessità, il cui l’incontro con altre persone, lo scambio, da occasione di arricchimento, di crescita, di vita, è diventato o viene associato a fonte di pericolo, contagio. Non c’è polemica nelle mie parole, viviamo una situazione difficile, ma il rischio è quello di perderci. Mi ero persa, voglio ritrovarmi.

Vengo da due anni in cui ogni tipo di spostamento è stato particolarmente difficile, se non impossibile.  Purtroppo, la riduzione dei viaggi « fisici » » si è portata dietro anche la riduzione di tutto cio’ che quel viaggio comportava. Ogni interazione è stata limitata al minimo, ridotta quasi solo alla dimensione virtule. Svanita l’attesa dell’incontro, la scoperta dell’altro, la ricchezza dello scambio che viene da una mano stretta, da uno sguardo condiviso, da un odore che entra nel naso.. Persa la relazione che costruisci piano piano con cio’ con cui entri in contatto, persona, oggetto, luogo, che entra nel tuo spazio vitale e finisce per cambiarti.

Questo vuoto mi ha annichilito.

Ed è proprio perchè voglio salvare queste componenti della mia vita, voglio ricordarmi a me, e magari a chi sta facendo la mia stessa fatica, che la vita è anche e soprattutto questo, ho deciso di tornare a scrivere. Un atto di rivolta contro un’abitudine che ci riduce all’inedia.

All’inizio non sarà facile. È vero, rispetto al passato, viaggio, viaggiamo tutti meno. Ed è vero che  forse una delle molle che mi ha fatto decidere di tornare a scrivermi, , è che « fisicmente » sono ripartita. Una nuova destinazione, la Tailandia, l’Asia, un mondo incredibilmente sfaccettato che si nasconde e chiede attenzione infinita per farsi scoprire. Questo forse ha aiutato a scuotermi dal torpore in cui ero finita, motivandomi. Ma non credo basti solo tornare a prendere un aereo per definire la nostra attitudine. Credo che la ridotta mobilià fisica, le frontiere chiuse, o peggio la fatica infinita che si fa per viaggiare oggi, possano diventare una pericolosa scusa per chiudere anche il cuore. Credo che abbiamo tutti rischiato questo in questi ultimi mesi/ anni. Non voglio piú questo. Dovro’ riabituare la mano, come il cuore.

Il viaggio non è mai stato per me semplicemente aggiungere una bandierina in piú su una mappa o un timbro sul passaporto. Il viaggo per me presupponeva e presuppone l’apertura, l’incontro con le persone, con e nei loro luoghi, cultura, colori, il cambiamento che quell’incontro suscita in me. Ho iniziato questo blog anche su questa premessa. Viaggi magnifici possono iniziare e svilupparsi semplicemente se decidiamo di tenere aperti occhi e cuore a quello che ci circonda, pronti a farlo entrare nelle nostre vite. L’ « esotismo » sta in tutto quello che non ci appartiene tradizionalmente, e che puo stupirci, cambiarci, arricchirci. Ho visto e vedo ancora oggi (forse anche di piú) tante persone viaggiare, e continuare a farlo restando impermeabili a tutto quello che li circonda, dietro barriere di protezione che forse aiutano, ma rendono la vita cosi piú povera.

Credo che la grande fatica di questi ultimi anni, almeno a titolo personale, sia stato il lasciare che l’abitudine, il lavoro, e poi la pandemia, mi facessero progressivamente chiudere gi occhi e il cuore alla meraviglia di quello che continua a circondarmi, ogni giorno.

La mia risposta all’ incertezza e alla tristezza di questo momento difficile è scegliere di tornare a aprirsi. Trasformare la difficoltà materiale dei viaggi attuali, i controlli centuplicati, i test, le misure di separazione, la diffidenza e la paura, non in un freno ma in una sorta di allerta che mi ricordi quanto quel « viaggio » sia prezioso e di valore, qualcosa mai scontato, qualcosa da guadagarsi perchè la ricompensa sarà grande. Qui a Bangkok siamo attualmente in lockdown, chiusi nel confort dei nostri appartamenti che possono diventare prigioni. Eppure il mio cuore è palpitante, « allerta » e aperto alla vita, come mai nell’ultimo periodo, pronto a ogni occasione di incontro e scoperta.

Per me e per chiunque vorrà accompagnarmi, ancora.

domenica 24 aprile 2016

Viaggio alla fine del mondo - Equatore, Repubblica Democratica del Congo

Prima missione in Congo. Prima missione in Equatore, una delle regioni piu innaccessibili e dimenticate del paese. I miei colleghi mi hanno salutato con un misto di compassione e sollecitudine, un po incerti di fronte al mio entusiasmo nel poter scoprire un pezzettino in piu di questo meraviglioso paese. Per questa volta, praticamente niente foto, nessuna macchina fotografica per fissare immagini e ricordi,mi hanno rubato il telefono proprio qualche giorno prima di partire. Solo il cuore, lo stomaco,le mie parole scritte su carta lungo i lunghi tragitti per evitare che tutto vada nel dimenticatoio e cercare di lasciare qualcosa a chi legge. Una scoperta che inizia dal finestrino del volo umanitario che da Kinshasa si ferma nelle principali stop points della regione, Mbandaka, Libenge, Zongo, Bangui (in Centrafrica) per arrivare fino a Gbadolite, la mia destinazione, quella che fu la citta fortezza di Mobutu dove erano sorti hotel, une residenza da fare invidia alle villae romane, una cappella e una cripta presidenziale, busti di marmo finissimo e decori in oro, ora completamente in abbandono, ultimo bastione di un Deserto dei Tartari che qui esce dalla letteratura per farsi realtà. Sotto di me, per tutto il viaggio, solo foresta, la meravigliosa, verdissima, imponente foresta equatoriale ed enormi limacciose distese d’acqua, che si perdono nel fango dei fianchi scoscesi del fiume Ubangi. Tu, solo un puntino che potrebbe sparire nel ventre di questo paesaggio. Ogni fermata è una nuova immagine che si fissa nel cuore e nella testa. A Libenge, una pista di atterraggio che non si vede  fino a quando non ci siamo praticamente sopra. A  Zongo, passeggeri in attesa del volo che spuntano direttamente dalla foresta, in bicicletta, moto, a piedi. Bambini che escono dai loro “nascondigli” , a gruppetti fissandoti dal portellone aperto dall aereo con le braccia incrociate, per poi aprirsi in grandi sorrisi sinceri quando tu li saluti con la mano. Zongo-Bangui, il volo piu breve della storia, 10 minuti di viaggio solo per attraversare quella che in Congo chiamano “riviere” Ubangi mentre in Centrafrica “fleuve”. Ennesima porosa frontiera africana, dove i limiti, i confini sono una creazione della quale la natura sembra non tenere conto. Bangui, una specie di aereoporto giocattolo dove gli “operatori umanitari” restano tutti concentrati sui proprio telefoni satellitari, senza il tempo e la voglia di scambiare una parola con in vicino. Gbadolite, l’arrivo sotto un cielo che non ho mai visto cosi nero, il vento che si alza pieno di una polvere rossa che annebbia la vista e brucia gli occhi, e poi la pioggia scrosciante, violenta come solo le piogge equatoriali sanno essere. Il mio benvenuto in un aereoporto pieno zeppo di militari in arrivo e partenza, altro segnale della vicinanza ad una frontiera dove la pace è ancora da consolidare.

Ma è via strada che conosci davvero questa regione, percorrendo le piste disastrate di un luogo che non conosce l’asfalto. Gbadolite – Gemena e ritorno , 8 ore di pista massacrante ma meravigliosa, uno dei viaggi in macchina piu belli che io abbia mai fatto, malgrado siamo rimasti in panne due volte, siamo stati costretti a fare marcia indietro una volta e i giorni di macchina siano diventati 3. Cos’ è il paradiso? Credo che ognuno abbia la sua immagine in testa, o piu di una. Per me questo pezzo di strada è entrato a farne parte. Paesaggi di una bellezza sconvolgente, una natura cosi ricca, cosi possente e nello stesso tempo cosi placida, cosi semplice e perfetta. Intorno a me solo jungla, palme, manghi ovunque. Manghi stracarici di frutti grandi come piccoli meloni, penzolanti fragilmente dai rami. Lunghi pali di legno appoggiati ai tronchi che i bambini usano per fare cadere i frutti e venderli poi sul ciglio della strada. Capanne di paglia a gruppetti di due e tre, organizzate in piccole coorti di sabbia dalle soglie ostinatamente ben spazzate, in un sforzo impari delle donne contro la polvere che continua a stupirmi qui in Africa. Davanti a ogni capanna, due o tre semplici tavole di legno a formare bancarelle improvvissate dove puoi trovare tutto quello che questa natura produce, in una sorta di mercato itinerante che mi segue lungo tutto il viaggio, continuando ad affascinarmi malgrado l’abitudine. Ci sono i manghi, ci sono gli enormi jaquis dalla forma cosi strana e impressionante, palle di sapone casalingo, arachidi tostate e attentamente impilate in file di piccoli sacchetti di plastica, ananas, papaie, manioca pestata e venduta a tazze. Tutto mi colpisce e si imprime nella memoria. Capanne di paglia con i panni stesi ad asciugare sui tetti, corsi d’acqua placida e trasparentissima dove i bambini fanno il bagno schizzandosi e ridendo. Donne di tutte le età, dalle bambine di 2-3 anni alle nonne di 60 con carichi sulla testa, ognuno commisurato all’età e forza del portatore. Pagne coloratissime usate come abito, come porta-bebé, come protezione per i carichi sulla testa. Polli, caprette che attraversano impazzite la strada, maiali, tantissimi maialini che mi ricordano la mia Emilia, a bagno nelle pozze d’acqua lasciate sulla pista dalle ultime piogge. Le celebri bici-taxi di cui tanto ho sentito parlare in Kivu e  che finalmente vedo qui in pieno servizio, affascinata dai conducenti che continuano a sfidare la forza di gravità, trasportando carichi di quintali su piste in pendenza, senza mai perdere il sorriso. Si trasporta di tutto, taniche d’acqua e d’olio, carichi di manioca, caschi di platani, bambini, frutta..ho visto trasportare perfino un maiale, legato per i piedi e compostamente al suo posto.  Pannelli solari, piccolini ma numerosi, messi a ricaricare al sole accanto alle case. Una luce  dalle sfumature meravigliose che illumina tutto, un riverbero abbagliante che si fa via via piu dolce al passare delle ore; verso le 4- 5 del pomeriggio comincia a sentirsi, piu e prima ancora di vedersi, una luce diversa, piu dolce, piu soffusa. Non è solo la luce a cambiare. Lungo le lunghe ore di viaggio è la vita delle persone che ti scorre davanti, con i lori ritmi, i loro riti. Cortei funebri scanditi dai pianti acuti delle donne. La frenesia del mercato del sabato, quando vedi le persone uscire dalla foresta, a gruppetti, tutte insieme in marcia nella stessa direzione; quando capita un dislivello e puoi vedere la strada davanti a te, in salita o in discesa, colpisce il pupullare delle persone in marcia, una festa di colori e di pagne diverse. La calma della domenica o delle ore piu calde della giornata, dove tutti spariscono e la foresta sembra diventare il paese della bella Addormentata nel Bosco, con le sedie di legno che restano vuote davanti alle soglie di casa. E poi il pomeriggio che avanza e la gente ricompare, di nuovo in marcia per rientrare a casa.  E vedi fuochi intorno alle  case, famigie riunite insieme, odore di mais bollito nell’aria. Odore della sera, della giornata che finisce.

Che cos’è la povertà? me lo chiedo mentre passo di fianco a questo microcosmo, in cui tutto sembra avere la sua ragione d’essere e contribuire al suo perfetto funzionamento. Forse scarsità di mezzi tecnici, ma anche qui quello che vedo fa sorgere dei dubbi, dove l’ingegno e la laboriosità delle persone danno delle magnifiche prove di applicazione e riescono a contribuire a quasi tutti i bisogni. Non il superfluo, quello no, per quello non c’è spazio. Come non c’è spazio per la comodità, per la facilità: facilità di accesso ai servizi, alle città, facilità nell’accendere un fuoco, cucinare, lavarsi, arrivare ad un centro medico. Ma quello che vedo mi interroga e mi pone delle domande. Soprattutto di fronte al sorriso con cui sono accolta ovunque, alle lezioni di generosita e di dono gratuito che ho ricevuto a piu riprese durante questi giorni di viaggio da persone che avevano un decimo dei miei beni ma che erano sempre pronti a condividere un frutto, un goccio d’acqua, un po’ di olio per far ripartire la macchina, nella convinzione che qui, dove si fa fatica a conservare le cose, dove una pioggia rischia di farti marcire il raccolto, dove la mancanza di corrente non ti permette di conservare la frutta per piu di due giorni, non ha alcun senso tenere tutto per sè, accumulare, e meglio vale condividere con gli altri, sapendo che quel dono, quella gratuità sarà poi ricambiata e sarà quella che ti farà sopravvivere e che darà senso alla vita. Viaggio alla fine del mondo, viaggio alla scoperta di una delle sue mille frontiere. Viaggio alla scoperta di me stessa. 

domenica 31 gennaio 2016

Riprendere i fili – Primi giorni a Kinshasa

Kinshasa
Riprendo a scrivere dopo mesi di silenzio. Riprendo a scrivere in Repubblica Democratica del Congo (RDC), a Kinshasa. Una specie di sogno che si avvera, sono nel posto di cui leggendo, studiando, sognando è forse nata la voglia, la spinta per l’Africa, sono qui dopo anni di peregrinazioni in giro per il continente e ci ritrovo molto di quello che dell’Africa mi si è attaccato addosso in questi anni. Riprendo a scrivere in un sabato “normale”, 30 Gennaio 2016, mentre la temperatura fuori è di 30° e la gente si accalca nei baretti e nelle botteghe sulla strada per assistere ai quarti di finale della Coppa d’Africa delle Nazioni, RDC contro Rwanda, che si gioca oggi a Kigali.

No, non parlo (solo) della gente che vive nel quartiere e nei magnifici palazzi e uffici della Gombe, il quartiere dove sono concentrate le maggiori organizzazioni internazionali e dove, per ragioni di sicurezza, sono invitati a vivere tutti i bianchi. Dove vivo anch’io, con la luce elettrica e l’acqua corrente sempre a disposizione, con i climatizzatori potenzialmente sempre accessi, dove i 30° di umidità e zanzare se vuoi puoi non sentirli mai.

Madimba
Dico per strada, per i viottoli dei comuni di questa città brulicante e pulsante di 12 milioni di persone che piano piano, senza fretta e senza voler essere spericolata o incosciente, cerco però di conoscere e avvicinare. Una città dove la polvere calda e densa si mescola al fango degli acquazzoni che arrivano improvvisi la mattina presto o la sera, dove l’odore dei cumuli di spazzatura lasciati a putrefarsi all’aperto si mescola all’aroma degli arachidi tostati. Dove è impossibile (almeno per me) non farsi contagiare dall’allegria invadente della musica congolese lanciata a palla nelle radio di macchine, taxi, bus e negozi. Dove l’aria viene rotta e frantumata mille volte al secondo da risate e grida e voci mai misurate o controllate ma sempre traboccanti vita e energia. Strade dove puoi trovare di tutto, senza la minima logica, ragazzi che arrostiscono spiedini di capra accanto a venditori di scarpe la maggior parte delle volte spaiate, parrucchiere a cielo aperto, che ti fanno i capelli davanti a specchi appoggiati a cespugli e alberi, farmacie da banco montate su tavolacci di legno e lustrascarpe che aspettano un tuo cenno di richiesta. Dove i ragazzi ti sorridono sfrontati con i loro muscoli in bella vista e i loro “Bonjour mundele  (Buongiorno “bianca” in lingua lingala), offrendoti un giro a poco prezzo sulle loro pericolosissime moto taxi. Una città dove mi ritrovo intimidita da un contatto sempre così ravvicinato, invadente, con altri corpi umani, cosi diverso dalla distanza di sicurezza che manteniamo in Europa, e colpita da un odore intensissimo di pelle, di sudore, di essere umano. Un odore cosi diverso dal mio. Un odore che forse non riuscirò mai a sentire totalmente mio, come forse non riuscirò mai a sentirmi davvero parte di questa vita e di questa comunità, ma a cui in questi anni, piano piano, ho cercato sempre di avvicinarmi un po’di più, condividendo con tante persone diverse da me pezzetti di strada.
Giardino botanico di Kisantu
Un posto dove soprattutto la sera, quando torno a casa in macchina, il naso fuori dal finestrino, inalo a pieni polmoni questa aria umida e appiccicosa che sembra risultare fastidiosa a tutti tranne che a me, mescolata all’odore di patatine fritte e manioca. E mi lascio cullare dal vento fresco perdendomi in questo cielo che è sempre chiaro per le mille luci della città e per l’abbondanza di stelle. Una città, un paese dove la natura è sfrontata, invadente, onnipresente, dove gli alberi, le palme, anche i cespugli sono a mio vedere più grassi, alti, ricchi, dove basta un temporale di mezz’ora e tutto spunta, germoglia, cresce, con un verde di un’intensità sconvolgente. I tropici. Riprendo a scrivere in e di un posto nel quale ritrovo tanto del mio passato, soprattutto della Tanzania, e nello stesso tempo mi scopro diversa e piu ricca ogni istante. Riprendere i fili e nello stesso tempo sentire di starne costruendo di nuovi.

Madimba
Ingresso della Maison du sourire

Oggi sono andata a trovare Lucia e Massimo, fuori dalla Gombe appunto, nel quartiere di Kimbanseke. Quando l’ho detto in ufficio, mi hanno guardato con un misto di stupore e diffidenza. “Cosa ci vai a fare lì?”. Lucia e Massimo in Italia hanno fondato la onlus Non basta un sorriso, per sostenere le attività che svolgono qui a Kinshasa, a favore dei bambini in situazione di disagio. A Kimbanseke hanno aperto una casa per accogliere bambini abbandonati o orfani La maison du sourire e hanno iniziato, attraverso il sistema delle adozioni a distanza, un progetto di scolarizzazione, aprendo una sezione di scuola materna e elementare per offrire ai bambini più disagiati del quartiere un’educazione di qualità e gratuita. Nessun progetto megagalattico ad alto impatto visivo o mediatico. Ma la scelta di restare nel quartiere, stare alle regole della gente del posto, provando a mostrare che i cambiamenti a volte sono i piccoli semi seminati nel silenzio e nell’umiltà. E a volte cosi si producono i cambiamenti piu sconvolgenti. Io non lo so se i sorrisi non bastano. In questi anni “africani” fatti di tante piccole scomodità quotidiane, di stanchezza rispetto a culture e modi di vivere e pensare che spesso non capisco e forse non capirò mai fino in fondo, della fatica di sentirsi straniera e mai veramente accettata, della morte che entra nella tua vita e in quella delle persone con cui lavori e vivi con molta più facilità e rassegnazione di quanto non capiti in Europa, di una scorza di cinismo che ti si attacca addosso e che un po’ intacca l’idealismo dei primi tempi, i sorrisi, gratuiti, sfacciati, a volte sconsiderati, sono la cosa che più mi è rimasta dentro e che continua a stupirmi e accompagnarmi. Quello che so è che oggi, mentre sul divano del salotto della Maison tenevo in braccio la piccola Lumi, accerchiata, quasi soffocata, dal calore denso dei corpi degli altri nove bimbi nella cappa umida della giornata, circondata dai loro sorrisi a 45 denti, non ho sentito differenza nell’odore della nostra pelle del nostro sudore.


Mentre finisco di scrivere queste righe sento esplodere un boato fuori dalla finestra. Tranquilli, nessuna manifestazione politica o tafferuglio elettorale. I Leopardi della RDC hanno vinto contro il Rwanda. E in tutta la città, alla Gombe come a Kimbanseke è doveroso festeggiare come si deve.