Bagamoyo, 18
febbraio 2014
Venerdi sono andata insieme alle colleghe di BAGEA in
una primary school di Bagamoyo per una mattinata di peer education con gli
studenti. BAGEA è nata per promuovere il diritto allo studio delle ragazze qui
nel distretto, dati gli enormi ostacoli cultural, economici e sociali che
ancora esistono a un riconoscimento pieno e reale dei diritti per le donne, in
primis quello all’educazione. Normalmente lavoriamo e promuoviamo
attività di educazione, promozione dei diritti e sensibizzazione per le ragazze
dai 16 ai 30 anni, ma abbiamo capito che se non si lavora anche con bambini e
bambine, se non si comincia fin da subito a parlare del diritto alla dignità,
all’educazione, alla promozione femminile, poi sarà molto più difficile a lavorare
con le ragazze ma anche con le stesse comunità locali nelle quali le ragazze
vivono.
E cosi, ecco l’idea di andare nelle scuole, per
cercare di spiegare e fare passare, in maniera semplice e “giocosa”, concetti
come il diritto all’educazione e il diritto a un’educazione paritaria per
bambini e bambine, lotta contro la violenza sulle donne, un inizio di
educazione sessuale e sulle malattie sessualmente trasmissibilli. Forse sermbra
un po’ prematuro, ma in un paese in cui il tasso di gravidanze precoci
(riferendosi a un’età che va dai 11 ai 14 anni) è tra i più alti al mondo forse
cambierete idea. L’obiettivo è che gli studenti formati a loro volta possano
trasmettere un po’ delle nozioni apprese ai loro coetanei e amici. Ecco il
senso della peer education.
Sono
arrivata a scuola con Alala, la presidente di BAGEA che ha una carica ed
un’energia trascinante soprattutto con i giovani, Jamila, la segretaria
dell’associazione, e Valentina, nuova SVE sbarcata da poco più di un mese a
Bagamoyo. Per me non era la prima volta che partecipavo alla peer education, ma
confesso che fa sempre un certo effetto entrare in queste classi polverose e
ombrose, dove ti servono alcuni minuti per abituarti all’oscurità venendo dalla
luce accecante di fuori, in cui stanno stipati, in rigorso silenzio e ansiosa
attesa dai 45 ai 60 bambini. Una classe. 120 occhi fissi su di te. Ad aspettare
quello che tu farai e dirai. Ad aspettare un tuo cenno. Alala si è presentata,
ha presentato l’associazione e il motivo della nostra presenza qui. Poi ci ha
fatto presentare. L’ultima peer education a cui avevo partecipato era stata
diversi mesi fa, quando il livello del mio swahili era davvero basico, mi
toccava presentarmi in inglese e i bambini mi guardavano sempre con deferenza e
un po’ di timore. Questa volta mi sono presentata in swahili, e i bambini hanno
risposto al mio “Mambo!” con un caloroso “Poa!!” Alala ha cominciato a
introdurre diversi concetti chiedendo ai bambini di intervenire con
suggerimenti e opinioni. Parlando della vita quotidiana, chiedendo il
riferimento alle loro storie personali, a quello che i bambini vedono e vivono
in casa e a scuola è molto più facile riuscire a parlare anche di concetti
“difficili” come parità uomo-donna, educazione, violenza. A ogni spiegazione seguiva
una fase di lavori di gruppi in cui i bambini si raggruppavano a gruppetti di
6-7 per discutere insieme dei temi affrontati e sviluppare le loro idee. E poi,
per sciogliere la tensione, la parte più bella: una sorta di bans-versione
tanzaniana proposti da Alala. Ce n’è in particolare uno che Alala mi ha
insegnato durante la prima peer education e che è un po’ il suo cavallo di
battagia. Inzia cosi: “Mama Jamila (una presa in giro nei confronti
della “nostra” Jamila) anasonga ugali”: che tradotto vuol dire “Mama
Jamila prepara l’ugali (uno dei piatti nazionali tanzaniani: la tipica polenta
bianca di mais). E poi continua: “con una mano, con l’altra mano, con i piedi,
abbassandosi fino a terra, ballando” etc. Tutto mimato. Alala ha cominciato in
sordina, invitando i bambini di seguirla. Credo che non credessero ai loro
occhi e ai loro orecchi. Un adulto che dava loro l‘autorizzazione e ballare e
cantare a squarciagola in classe. Subito hanno cominciato timidamente poi si
sono scatenati, come solo i bambini sanno fare, soprattutto quelli africani. Ad
un certo punto ho pensato che l’aula sarebbe venuta giù. E devono averlo
pensato anche le persone fuori, perchè è venuta un’insegnante da un altra
classe per chiedere se andava tutto bene. Dopo un’altra “sessione di lavoro”
Alala ha riproposto il bans, chiedendo a me e Valentina di accompagnarla. È
stato lo spettacolo. Cioè non per la nostra performance, che davvero lasciava
alquanto a desiderare soprattutto se paragonata all’elasticità africana, ma per
il momento di condivisione che si è creato. I bambini si sbellicavano dalle
risate, e poi, dopo un attimo, hanno ripreso a ballare con noi. Siamo qui per
parlare di diritti, di educazione, e spesso rimaniamo chiusi nei nostri uffici,
sapendo poco di cosa vuol dire “educazione” qui, e di cosa vuol dire lavorare
insieme con la gente del posto per rafforzare questo diritto. Io non sono
un’educatricie o un’animatrice, non mi ci vedo e non credo che sarebbe il mio
posto, ma in quella classe, cantando insieme di come si prepara l’ugali, mi è
sembrato per un attimo di essere più vicina a quei bambini che mi prefiggo di
“aiutare” dal mio ufficio, di capire un po’ di più, di entrare un po’ di più
nella loro storia. Come quando con l’ortolano mi fermo a discutere di come si cuoce
il matembele (una sorta di bietola locale), o come quando con Roma, il mio
insegnante di swahili, discutiamo di cosa vuol dire essere giovani lavoratori
in Tanzania o in Europa..
Oggi, dopo il lavoro, stavo camminando per le stradine
di Bagamoyo. Un gruppo di bambini con indosso la divisa scolastica mi si è
avvicanato e mi ha salutato. Capita spesso e non ci ho fatto troppo caso. Poi
però mi hanno detto “Mambo Vale!Mama Jamila wapi???” (Ciao Vale, dov’é
Mamma Jamila???.. erano i “nostri” studenti..si erano ricordati! Era rimasto
qualcosa della mattinata passata insieme! Mi piace pensare che tra una parola
di un bans e un’altra sia rimasto anche qualche riferimento a educazione e
diritti umani. Spesso mi sento amareggiata o delusa, quando ho l’impressione
che si riesca a fare cosi poco, che alla fine le persone siano cosi poco
interessate a quello che facciamo. È bastato un “Mama Jamila” a farmi tornare
il sorriso. A farmi dire che non è mai tutto inutile. Ridendo ho risposto “Mama
Jamila pale ofisini ya BAGEA!” (è all'ufficio di BAGEA).
ciao, vale, sono la mauri, dal rwanda...che bello leggerti e in Kiswahili...sei molto lontana dal confine con me?...potremmo vederci, io al confine con la tanzania avrò 3 ore, circa...bello quello che vivi...bello quello che condividi, grazie, mauri
RispondiEliminaCiao Vale... sono Denis .. se incontri la Mauri fate una foto insieme e ce la mandate? Come stai tu? Quando torni?
RispondiEliminaciao Mauri! che bello sentirti! e grazie mille per le tue parole..anche per me è bello e importante poter condividere quello che vivo, cosi non mi sento da sola, non è una cosa solo mia! dunque dunque, io sono un po' distante dal confine, pensa che sono dall'altra parte, sulla costa, vicino a Dar es Salaam, però adesso posso vedere se è possibile organizzare qualcosa! pensa che quando sono venuta in rwanda ques'estate anch'io ero andata sul confineed ero entrata in Tanzania!..spero che li vada tutto bene! Denis rientro il 28 aprile!!! facciamo che ti scrivo per mail!
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