domenica 15 dicembre 2013

DIRITTI UMANI - HAKI ZA BINADAMU



Bagamoyo, 15 dicembre 2013

Questa settimana ho partecipato a un workshop di due giorni sui diritti umani organizzato dal CVM e rivolto a tutti i suoi partner, Bagea, l'associazione con cui collaboro, ma anche tante altre associazioni impegnate nella promozione e difesa dei diritti di donne e bambini.

La mia educazione è stata “infarcita” dalla parola “diritti umani”: a scuola, all’universtà, per televisione, sui giornali, a seminari di approfondimento..in Europa è una parola che senti spesso sulle nostre bocche. Con un’accezione che diventa sempre più ampia, più omnicomprensiva, quasi filosofica, senza però la sicurezza che nella quotidianeità i diritti più o meno importanti vengano rispettati davvero.  Ero molto curiosa di vedere come sarebbe stato stato organizzato il workshop, curiosa di vedere come si sarebbe affrontato il tema dei diritti umani qui a Bagamoyo, quello che sarebbe venuto fuori dai dibattiti.. Forse sono arrivata al worshop immaginandomi gli stessi dibattiti articolati, complessi, che si perdono in mille dettagli e sfumature dei termini che facciamo nelle nostre università o nelle nostre tavole rotonde.. 

Tutto il mio ragionare è stato messo in discussione fin dal primo giorno di worshop. Appena finite le presentazioni e la spiegazione sul senso del seminario – capire e discutere sui termini e sulla legislazione esistente in Tanzania in materia di diritti umani e nello specifico dei diritti del bambino e delle donne- siamo stati divisi in tre gruppi, ed ad ogni gruppo è stato chiesto di rispondere ad alcune domande preliminari: 1. Che cos’è un diritto? 2. Cosa sono i diritti umani? 3. Qual è la qualità/caratteristica dei diritti umani?

Il worshop era naturalmente in swahili, e cosi io avrei voluto defilarmi, ma i membri del mio gruppo hanno chiesto anche a me di dare il mio contributo, aiutandomi con l’inglese. Ho subito cominciato a elaborare nella mia testa la definzione che fosse la più corretta e completa di “diritti umani”, ripescando nella memoria gli infiniti corsi  di diritti di tutti i tipi seguiti in università, preoccupandomi di dare definizioni molto articolate intorno a termini come universalità, reciprocità etc etc. Gli altri membri del gruppo mi hanno preceduto. Spiazzandomi un po’. “I diritti umani sono il diritto alla vita, il diritto a un’educazione di qualità, il diritto alla salute” hanno detto. Cose concrete, cose molto ben determinate. Che forse da un punto di vista giuridico non rispondono appieno alla domanda “che co’è un diritto? Qual è la sua caratteristica?” ma forse rispondono molto di più alle carenze che si vedono tutti i giorni qui a Bagamoyo e alle necessità che vengono sentite come le più urgenti e più bisognose di essere definite “diritti”.

Ancora, se proprio c’era da fare un elenco di diritti, io avrei sicuramente inserito il diritto alla libertà. Libertà di pensiero, di parola, di stampa. Concetti a cui in Europa si è molto legati e che io stessa considero non parole vuote ma diritti fondamentali da difendere e valorizzare. Ma nessuno dei miei compagni ci ha pensato o l’ha nominato. Per loro, era molto più prioritario parlare di diritto all’educazione di base, in un paese in cui c’è un altissimo tasso di abbandono scolastico, soprattutto femminile, per ragioni culturali e sociali ma anche economiche, visto il costo proibitivo per molto famiglie legato alla scolarizzazione (acquisto della divisa scolastica – obbligatoria-, costo dei pasti, del trasporto e dell’alloggio per i ragazzi che vengono da lontanto, soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria..). Come cambia la priorità di necessità e diritti da un paese all’altro! Come cambia anche il significato che diamo agli stessi termini. Penso per esempio al fatto che quando in Italia parliamo di difesa del diritto all’istruzione, parliamo di riforma universitaria, di fondi per la ricerca, di tirocini retribuiti..quanto è grande il divario! Già solo questo primo momento di confronto mi ha fatto riflettere moltissimo.

Dopo avere chiarito un po’ di definizioni preliminari, ci siamo addentrati più nello specifico sul tema dei diritti del bambino. Anche qui, tanti spunti di riflessione. Si è arrivati a parlare del problema del lavoro minorile. In Tanzania esiste una legge che regolamenta la situazione e fissa limiti di età per diverse categorie di lavoro: fino ai 12 anni i bambini non possono lavorare. Dai 12 ai 15 anni possono lavorare in casa come “aiuto domestico” per la famiglia. Dai 15 possono cominciare a essere assunti regolarmente. Ad un certo punto il facilitatore del workshop ha chiesto ai presenti chi avesse in casa una ragazzina come aiuto per i lavori domestici. Si tratta di una pratica diffusissima qui in Tanzania, come in tanti altri paesi africani: prendere in casa una ragazzina che aiuti con le pulizie, la prepazione dei pasti, i lavori domestici. Spesso si tratta di ragazzine provenienti da famiglie povere o che cercano di mettere da parte i soldi per pagare la scuola secondaria. Nessuno qui ci vede di niente di strano. È un modo per avere un aiuto in casa dando qualche soldo a chi ne ha bisogno. Io, con la mia sensibilità italiana, faccio ancora fatica a considerarlo “normale”, e un po’ la domanda del facilitatore, fatta a membri di associazioni che si battono per la tutela dei diritti dei bambini, mi ha toccato. In diversi hanno alzato la mano. Il facilitarore ha chiesto l’età delle ragazzine, complimentandosi per il fatto che nessuno di loro avesse preso in casa una ragazzina fuori dai limiti di età previsti dalla legge. Quello che per me era comunque un mancato rispetto dei diritti bambini (il fatto di farli lavorare) veniva invece considerato un primo passo per una migliore tutela proprio di quei bambini. Anche qui, ho cominciato a pensare alla differenza che esiste tra il contesto nel quale sono cresciuta e quello in cui mi trovo a vivere ora. Un contesto nel quale comunque è normale che tutti i bambini, anche se non formalmente impiegati, “lavorino”, per esempio andando a prendere al pozzo o alle cisterne l’acqua in taniche da 10 o 20 litri (che io non riesco neanche a sollevare), o prendendosi cura dei fratelli, o aiutando la famiglia nelle vendita di frutta o verdura.. un contesto nel quale la nozione di “lavoro”, “diritto”, “tutela” forse non possono avere le stesse dimensioni che sono abituata ad utilizzare io. Un contesto nel quale credo sia necessaria molta attenzione e precauzione nel giudicare e dare pareri.

Il workshop è continuato a lungo, con bellissimi momenti di dibattito e di confronto sulle esperienze delle diverse associazioni. Per esempio, il secondo giorno di seminario, che era dedicato ai diritti della donna, è stato bellissimo vedere le differenze tra i diversi tipi di matrimonio previsti in Tanzania, quello “governativo”, quello islamico e quello cristiano, spiegati non solo tramite i testi di legge, ma direttamente dai partecipanti appartenenti alle diverse confessioni, che si sono confrontati sulle proprie specificità trovando poi più punti in comune di quello che pensavano. C’è stato spazio per le domande e per i chiarimenti, con i facilitatori che aiutavano a comprendere certi passaggi dei testi di legge. C’è stato spazio anche per le risate davanti a un piatto di riso condiviso. Per me è stata soprattutto l’occasione per “uscire” un po’ di più da me stessa e da ciò che consideravo e forse considero come delle certezze. Parlando di diritti umani, forse è vero che sui manuali di diritto si possono trovare definizioni “universali”, e credo davvero che la qualità di un diritto umano come tale debba essere e sia il fatto di appartenere all’Uomo, ad ogni uomo indistintamente, senza divisione in categorie, gruppi, senza eccezioni. Ma penso anche che quello che questo workshop e più in generale questi mesi in Tanzania mi stiano aiutando a capire è il bisogno di guardare sempre prima all’uomo, all’uomo nel suo contesto particolare, all’uomo nel suo tempo e nella sua storia, che qui in Tanzania è diversa dall’Italia o dalla Spagna o dalla Germania. Il bisogno di declinare e sfumare quei diritti nel contesto in cui ti trovi, senza voler per forza imporre qualcosa. Voglio dire, credo ci voglia molta cautela nell’affermare come assolute nozioni e definizioni che forse sono validi e hanno un certo valore per me ma possono averne un altro per altre persone. Anche questo è un diritto umano. La tolleranza. Il rispetto delle diversità. Credo che solo partendo da questo si possa pensare di capire un po’ meglio l’altro e entrare un po’ di più nella sua storia. E questo non vale solamente per il mio rapporto con i tanzaniani. Ma vale, credo, per l’incontro con ogni uomo diverso da me.

domenica 24 novembre 2013

Della meraviglia degli incontri casuali



Bagamoyo, 23 novembre 2013

Oggi non parlo di lavoro. Non parlo di progetti, di storie tristi e situazioni difficili. Oggi parlo della meraviglia che ti lasciano gli incontri che non ti aspetti, gli incontri casuali, apparentemente banali, che puoi fare ogni giorno, in ogni giorno a caso, ma che in fondo in fondo sono quelli che riempiono la vita (forse dovrei dire la “mia vita” per non generalizzare) dandoci specificità e valore.

Qui sono le 21 e 50 di sabato sera, e mentre in Italia la gente si prepara per uscire (voi siete due ore indietro) io sono appena tornata a casa dopo una bellissima serata passata da due ragazze coreane che mi hanno cucinato una superba cena di prelibatezze coreane. Le ragazze le ho conosciute per caso una domenica mattina tornando a casa dopo la messa alla missione cattolica. Sulla strada del ritorno mi si è affiancata una delle due, che io avevo già visto, con molta meraviglia, in chiesa. Non so perchè ma gli occhi a mandorla e la religione cattolica nella mia testa non si associavano molto. Mi ha salutato mescolando inglese e swahili, e si è messa a seguirmi e chiacchierare. Faceva caldo e io, immersa nei miei pensieri non avevo molta voglia di chiacchierare, ma lei non se ne è accorta o non ci ha badato. E cosi abbiamo cominciato a parlare del più e del meno. “Cosa fai qui?”, “sono qui con un programma di volontariato dell’Unione Europea”, “anch’io sono una volontaria!..”. Poi mi ha chiesto da dove venissi. “Italia”. “ e io?” mi ha chiesto lei . Ho tentato, rispondendo un po’ con banalità, con un “Giappone?”. “no”. “Cina?”. No. “Corea?”. “si si!!sono coreana”. Poco dopo ci siamo salutate dicendoci “dai dai ci sentiamo in settimana!”. Io ero sempre un po’ titubante e vogliosa di tornare alle mie faccende, come spesso mi capita quando ho l’impressione che una persona voglia violare il mio spazio, il mio mondo, e chieda di entrare con la sua storia..non ci ho più pensato.

Qualche giorno dopo mi ha chiamato lei e mi ha proposto di andare a cena in un ristorantino qui di Bagamoyo, con anche un’altra sua amica koreana. Ho accettato pensando fra me e me “chissà cosa ci diremo per tutta la sera?!”. E invece..è stata una serata bellissima. Semplice, tranquilla, passata a raccontarci pezzetti delle nostre vite ai due capi del mondo e che adesso si incontrano qui in Africa, il tutto davanti a succulenti piatti tanzaniani. Anche le due ragazze sono volontarie, come me. sono qui con un programma di volontariato del governo koreano, proprio come me in Madagascar un anno fa.  Una volta arrivate qui, visto che pronunciare i loro nomi era troppo difficile, la gente ha dato loro nomi tanzaniani, Neema e Rehema. Rehema ha 27 anni, in Korea è insegnante elementare, ed è venuta qui per insegnare biologia in una scuola primaria locale. In teoria il programma preveda che lei insegnasse in inglese, ma visto che i bambini non lo sanno, lei sta imparando lo swahili per poter spiegare in lingua locale. Neema ha 23 anni, in Korea studia matematica e qui collabora con il comitato di sviluppo locale di un villaggio vicino a Bagamoyo. Anche lei dal primo giorno è davvero sul campo. È stato bello potersi confrontare sulla nostra esperienza qui, su quello che ci ha spinto a partire, sulle difficoltà, sulla solitudine che spesso proviamo, ma anche sull’entusiasmo che continua ad animarci tutte e tre. È stato strano e bellissimo scoprire che pur venendo da continenti diversi, da storie, percorsi e possibilità totamente diverse (per loro questa è la prima volta che escono fuori dalla Corea ed erano sorpresissime di sapere che adesso se io voglio viaggiare in Francia o in Germania non mi serve neanche il passaporto..) ci ritroviamo più simili di quanto avrei mai potuto pensare.

Verso la fine della serata mi sono ritrovata a pensare che era la prima volta in vita mia che incontravo e passavo del tempo con delle ragazze dalla Korea. Ho pensato che io della Korea non so praticamente nulla. Voglio dire, a parte la collocazione geografica (più o meno) e i ricordi storici della guerra di Korea, cosa so della sua gente, dei suoi giovani, di quello che fanno i miei coetani koreani oggi? ( Confesso che forse un po’ sono influenzata dalle riflessioni di Terzani scritte in “Asia” che sto leggendo in questi giorni..) Questa è stata la prima, fortunosa, occasione per parlare con loro, confrontarci, guardarci negli occhi, con sensibilità.
Come sempre, le mie titubanze e la mia ritrosia nell’aprirmi sono state scacciate via in un attimo, e la voglia di rimettersi in gioco, di conoscere un po’ di più di questo mondo, prende il sopravvento. A fine serata, quando è stato il momento di pagare, le due ragazze hanno voluto offire per me. Un gesto inaspettato, non richiesto, che mi ha toccato. E poi, quando hanno saputo che non avevo mai assaggiato nessun piatto koreano, mi hanno invitato a casa loro per una cena koreana doc a base di gamberi. Hanno comprato i gamber al mercato del pesce, cucinato per me, fatto entrare e accomodare in casa loro, come si fa con un amico. 

Mentre tornavo a casa in pikipiki guardavo questo meraviglioso cielo notturno stellato e mi è venuto da sorridere pensando che sono dovuta venire in Tanzania per conoscere queste due ragazze asiatiche che nel messaggio di buonanotte mi hanno chiamato “amica”. Ho pensato alla ricchezza che mi stanno regalando questi mesi. Mesi che oltre a farmi scoprire ogni giorno pezzi di un mondo africano su cui ho sempre fantasticato, mi fanno scoprire pezzi di mondo a cui forse non ho mai dato tanta importanza, pezzi di mondo che non conoscevo per nulla e che pensavo non avessero nulla da dirmi. E che invece parlano, parlano tantissimo, se hai voglia di ascoltare e guardare, attraverso gesti, gamberi fritti, una canzone in cui io e Neema ci siamo ritrovate a cantare insieme, un “buona notte” dettoci in swahili.

sabato 19 ottobre 2013

DOPO OGNI BATTUTA D'ARRESTO..



Rieccomi qui. Dopo tante piccole battute d’arresto. Un brutto virus intestinale. Una settimana senza corrente. Poi il taglio dell’acqua. E viaggi infiniti con mezzi pubblici che, ammetto umilmente, mi logorano. E la stanchezza. E la sensazione di non stare facendo nulla. Anzi, che tutto quello che faccio alla fine non serve a niente. Perchè alla fine il mondo non lo cambi. Perchè alla fine il mondo forse non vuole essere cambiato. E la voglia a volte di “mollare tutto”. Ieri sera sono tornata dall’ennesimo monitoraggio in un villaggio sperduto del distretto. Sfinita. Il mio unico desiderio era un bagno e un letto. E lasciare il mondo al suo destino.
E poi come sempre, quando meno me lo aspetto, la bellezza di quello che vivo, di quello che ho la fortuna di vivere viene fuori con forza. 

Stamattina mi sono messa a rimettere a posto le foto scattate. Non tanto per spirito ludico. Quanto per preparare i rapporti per il lavoro. Ed è successa una cosa stranissima. Mi sono commossa. E non riuscivo a non sorridere. Pensando ai due giorni trascorsi. La fatica e le difficoltà incontrate non è che fossere sparite, ma c’era qualcosa di più forte che veniva fuori. 

L’obiettivo della visita oltre che monitoraggio era training di refreshment sulla produzione di batik rivolto a un gruppo di ragazze che abbiamo coinvolto in un programma di formazione professionale e empowerment economico. Avevamo chiamato una formatrice da Dar es Salaam che ha un negozio di produzione di diversi aritcoli con la tecninca del batik per spiegare nuove tecniche di produzione alle ragazze. Le ragazze sono già capaci di realizzare tessuti in batik e producono articoli che poi rivendono nel villaggio. Il nostro obiettivo è quello di migliorare la qualità dei loro prodotti per pensare magari di allargare il mercato delle vendite e migliorare la loro situazione. Ma non è tutto cosi scontato. A volte hai l’impressione di pensare e ragionare con tempi, obiettivi, e finalità che sono solo tuoi. A volte capisci che quello che vorresti realizzare, quello che tu ritieni importante e giusto, magari non è quello che sognano altre persone. E devi fare un passo indietro. Devi accettare la diversità. Che non vuol dire gettare la spugna su tutta la linea, ma vuol dire essere disposto a rimodulare i tuoi standard. È difficile. è difficile concretamente modifiare attività e risultati soprattutto quando si parla di progetti definiti in anticipo. È difficile in generale accettare che le cose non vadano come avevi pensato tu. È difficile imparare a seguire altri tempi e modi.

E poi c’è la fatica quotidiana di essere straniera. Di continuare a non capire quello che la gente dice intorno a te e quella di non riuscire a farsi capire. Quella di provare ogni minuto sulla tua pelle quanto fa male il razzismo e una diversità che ti viene ricordata ogni istante. La fatica del non essere chiamata mai per nome ma solo “muzungo” “bianca”. La fatica e l’amarezza del rischiare di essere fraintesi. Del passare per l’ennesimo bianco che viene per fare foto ricordo, senza riuscire a spiegare che quelle foto, quelle registrazioni che tu fai servono per ottenere finanziamenti e sostegno alle attività. La fatica del trovarsi in situazioni in cui tu ridi e ti accorgi che non avresti dovuto farlo, o peggio, rimani serio mentre intorno a te le persone scoppiano a ridere.

Eppure. Eppure. Eppure sono qui. E provo a starci. Con tutti i miei limiti. E imparo tanto. Imparo un senso della solidarietà che non conoscevo. Ho visto le ragazze lavorare insieme con un disinteresse che difficilmente vedo in Italia. Tutte insieme tagliare, cucire, legare insieme i tessuti per poi immergerli nelle bacinelle dei diversi colori. Senza distinzione del “mio” e “tuo”. Ogni ragazza imparava dalla formatrice una diversa tecnica di colorazione o intreccio del tessuto e poi la insegnava alle altre. E nello stesso tempo tutte a darsi una mano a tenere i rispettivi bambini che le mamme si portano dietro in tutto quello che fanno. Mentre una ragazza doveva lavare una tela, lasciava il bimbo a un’amica per poi riprenderlo dopo un po’ di tempo e darsi il cambio. È vero. A volte la confusione sale e sembra che non si concluda niente. Ma non è vero. Piano piano il lavoro procede. Le tele sono state tagliate, intrecciate, colorate, lavate e stese al sole tutte e quante. E alla fine ogni ragazza è tornata a casa con le tele finite e quelle da finire, per produrre articoli che poi visioneremo alla prossima visita.

La formatrice ha messo a lavorare anche me, per parcondicio. E cosi tra un controllo dei nomi e un aggiornamento dei data base mi sono messa pure a rifinire i tessuti che poi andavano tinti. Seduta sul prato insieme alle ragazze. E quando mi sono messa a fare delle smorfie ai piccoli stanchi per il lungo stare fermi , e i piccoli hanno riso, hanno sorriso anche le mamme.

L’ultimo giorno, c’è stato un momento in cui stavo davvero per mollare. Ero andata con alcune ragazze a visionare alcuni strumenti di lavoro che andavano fotografati per catalogazione. Loro chiacchieravano e io non riuscivo a capire nulla di quanto dicevano. Ho capito che se ne erano rese conte, e un po’ ridevano della cosa. Mi sentivo una stupida. Cosi fuori posto. Con loro, nel villaggio. Mi sentivo che forse avrei fatto molto meglio a stare a casa mia forse. Abbiamo fatto le foto. Io ho detto “grazie “alla ragazza che era con me e volevo sprofondare. E lei ha sorriso timida. Siamo uscite dalla stanza e proprio in quel momento per strada passava suo marito. Me l’ha presentato subito. Si vedeva che ci teneva. Mi ha chiesto di far loro una foto. Era raggiante. Io ho fatto le foto, gliele ho mostrate, ho stretto la mano al marito sorridendo. E poi è successa un’atra cosa strana. Lei mi ha preso per mano. Cosi semplicemente. Siamo tornate dalle altre ragazze cosi. Io e lei per mano. Lei che ha 20 anni, un marito e una bambina di qualche mese. Lei che lavora da diversi anni, che ha le mani segnate dal lavoro come una donna italiana di 50 anni ma ha il sorriso di una bambina. A fare il percorso inverso per il villaggio, tornando dalle altre ragazze, mano nella mano con lei, mi sono sentita cosi “forte”. Riuscivo a guardare la gente intorno a me negli occhi. Le ho chiesto il nome della sua piccolina che si portava sulla schiena. In swahili finalmente. E lei mi ha risposto sorridendo di nuovo.
Magari per lei non ha significato molto. Magari oggi si è già scordata di me. Ma per me quel momento è stato bellissimo. 

Forse sembra paradossale. Ma questa mattina non sento la fatica. Guardo le foto e penso che alla fine, in un modo o nell’altro, in quei momenti sono stata parte anch’io di quelle giornate. E penso che se le ragazze si ricorderanno e riusciranno ad usare anche solo alcune delle nuove tecniche insegnate durante la formazione sarà già un risultato importantissimo e quello che facciamo non è inutile. Sono tornata a casa con un batik anch’io, era una delle prime prove fatte e doveva essere ancora migliorato. ma a me sembra bellissimo.

domenica 29 settembre 2013

TASUBA - Qualcosa che manca all'Europa



Bagamoyo non è famosa (si bè famosa forse è una parola grossa) solo per la tratta degli schiavi e per essere stata la prima cittadina cristianizzata di tutta l’Africa dell’est. Forse ancora meno persone sanno che Bagamoyo ospita anche un festival musicale che è considerato (cosi si dice) il più importante di tutta l’Africa dell’est. Tasuba. Un festival di musica, danza, giocoleria che vede arrivare ogni anno a settembre artisti non solo da tutta l’Africa orientale, ma anche dall’Europa, in particolare quella del Nord con qui Bagamoyo ha stretto nel corso degli anni importanti collaborazioni e partnersship, in campo culturale e non solo. Una settimana di spettacoli, concerti all’aperto, esibizioni di gruppi giovanili e locali nel corso della giornata e concerti di artisti di maggiore fama la sera. 

Ieri era la serata di chiusura. Io e la mia coinquilina, dopo avere miseramente disertato a tutta la settimana di bagordi, abbiamo deciso di andare. Siamo arrivate davanti alla sala in cui si teneva il concerto/spettacolo verso le 21h30. Una calca infinita e suoni di canti e tamburi e fischi di incitamente che venivano già da dentro. Serata a pagamento. Costo di ingresso 2000 scellini. A noi alle casse ne hanno chiesti 5000 perchè non tanzaniane. Vedi bianche. Ci hanno pure dato un biglietto di colore diverso, marrone invece del regolamentare blu. Mi sono sentita un po’ come marchiata da una moderna stella di david. Ma va bè. Siamo entrate a fatica nella sala da concerto, spintonando e facendoci largo con i gomiti alti. Dentro il deliro. Palazzetto pieno. Neanche alle finali di Euro Lega di basket. Attraverso un tortuoso giro siamo arrivate nel parterre proprio sotto il palco, e ci siamo sedute per terra, proprio in prima fila se si può dire cosi, in mezzo ai bambini urlanti. I 5000 scellini meglio spesi di questo mese. Sul palco un gruppo di ballerini, 5 donne e 3 uomini accompagnati da gruppo musicale con tamburi, chitarre, strumenti tradizionali e 3 o 4 cantanti che si alternavano. Ho il rimpianto di non sapere da che paese africano venissero. Però la lingua era swahili. Si stavano già esibendo quando siamo arrivate noi. Non hanno finito prima delle 22 e 45.  Credo 2 ore sul palco ininterrottamente. Due ore ininterrotte di musica e canti ora ritmati ora più raccolti ad accompagnare altrettante ore di balli, ora frenetici ora più contenuti. Un ritmo, una coordinazione, una carica pazzeschi. Costumi bellissimi. Corpi bellissimi. Quelli delle ragazze, morbidi e sinuosi, li intravedevi dai costumi mai scoperti o volgari. Quelli dei ragazzi, fasci di nervi e muscoli. Tutto il loro corpo era concentrato in un muoversi da cui non riesci a staccare gli occhi. Non so trovare parole. L’unica cosa che sentivo era “ecco, quello che l’Europa non sarà mai”. La gente gridava e fischiava (si credo di avere capito che qui il fischio vuol dire approvazione). Io sarei rimasta in silenzio per ore e ore a guardarli.

Dopo di loro per par condicio è stata la volta della Norvegia. Anche qui band musicale e gruppo di ballerini. Tutto un altro stile. Musiche che ricordano e balletti dalle movenze meccaniche in tutine di lattice. Ora, io non sono un’intenditrice di ballo, soprattutto moderno, e sicuramente c’è tutto uno studio filosofico dietro queste ricerche della danza postmoderna. Lungi da me mettere in dubbio la professionalità dei musicisti e i muscoli dei ballerini. Ma ragazzi. È come il ghiaccio dopo il fuoco. Singore mio, credo che il pubblico non capisse neanche bene di che si trattasse. Anche i norvegiesi hanno avuto i loro fischi di plauso. Quando alle ballerine si sollevava la gonna lasciando intravedere maliziosalmente la mutandina nera. Non sapevo se piangere per loro o ridere per la situazione. Con tutto il loro studio e la loro arte a me e alla mia coinquilina, che pure siamo europee, hanno comunicato cosi poco. Diciamo che siamo rimaste umilmente perplesse. 

Sempre molto umilmente dico Africa batte Europa 10 a 0. 

Poi è stata la volta dell’Etiopia: band musicale e gruppo di giocolieri giovanissimi. Contorsioniste che avranno avuto tra i 12 e 14 anni, giocolieri, ragazzi che si arrampicano su scale e saltellano su monocicli alti un metro e mezzo. E ancora musica e canti e suoni di chitarre moderne e tradizionali. E l’oroglio nazionale. E l’orgoglio di un continente che si conosce e si mescola.

E poi il gran finale: dal nord della Tanzania un gruppo di ballerini e suonatori di danze tradizionali. Ngoma ( i tamburi tradizionali in pelle di vacca o capra) enormi. Suonatori con il corpo decorato con pasta bianca e vestito con gonnellini di piume e il capo ornato. Tra i suonatori anche un uomo vestito con un costume rappresentante una delle maschere locali, una specie di animale fantastico.
Lo spettacolo si è aperto al suono degli ngoma, sul quale uno dei suonatori staccatosi dal gruppo (una sorta di narratore) ha cominciato a cantare o meglio reciatare un testo, come l’inzio di una storia o un racconto tradizionale. A fatica si è fatto silenzio nel palazzetto. Dai lati, due fila di ballerini hanno cominciato a ripondergli. Sempre in questo misto di canto e recitato. E piano piano, danzando, hanno cominciato ad entrare in scena. Due gruppi. Gli uomini da un lato, le donne dall’altro. Tutti in abiti tradizionali. Gli uomini con le penne d’uccello intrecciate in bellissimi copricapo. Le donne con il kanga e il capo coperto da un corto tessuto a trattenere i capelli. Un crescendo di tensione. E poi all’ennesimo colpo di ngoma è partito il vero ballo. Un’esplosione. Frenetica, velocissima. Ancora muscoli e bacini che roteano freneticamente. Gocce di sudore sulle schiene dei danzatori. E il canto grave e profondo dei ballerini, e le grida delle donne. E poi l’ingresso in scena di un’altra “maschera” tradizionale: un ballerino vestito con un enorme costume grigio a rappresentare non so quale mostro. Enorme. A ogni suo movimento si disperdeva da lui una nube densa di un qualche tipo di polvere profumata.  E ancora canti e balli, e voci e corpi che si muovono. In un modo che noi europei non riusciremo mai a imitare, perchè non lo riusciamo forse a capire. Confesso, mi è venuta la pella d’oca. Il pubblico in delirio. Il culmine è stato raggiunto quando sono saliti sul palco due bambini, anche loro vestiti e truccati con gli abiti e i colori tradizionali. il primo avrà avuto 3 anni e rullava le palette di legno su un piccolo ngoma perfettamente a tempo seguendo i suonatori adulti. La bambina avrà avuto 4 o 5 anni e danzava seguendo le donne. si può essere “sensuali” a quell’età? Vedendo lei ho pensato di si. Eccezionali. La gente dagli spalti ha comiciato a salire sul palco per lasciare soldi infilandoli nei costumi dei bambini (qui è tradizione fare cosi). I ballerini dal palco chiamavano gente a ballare con loro. Una danzatrice ha provato a chiamare anche noi. Mi sono vergognata della mia impacciataggine europea e non sono salita. Inotorno a me si muoveva tutto. C’è stato un momento in cui non si capiva più nulla. Il pubblico si era spostato tutto sul palco. Si sentivano solo i tamburi e le grida della gente. E un muoversi di corpi indistinguibili gli uni dagli altri.  A fatica è stato riportato l’ordine. Ancora un colpo di ngoma e si sono accese le luci. Finito tutto. È stato come se si fosse spento di colpo l’interruttore. Sono tornata alla realtà.

Come nelle migliore tradizioni, non ho neanche una foto della serata. La mia macchina fotografica si è inceppata proprio ieri mattina cadendo nella sabbia. Ma forse è stato meglio cosi. Lo spettacolo me lo sono goduta tutto, assaporando momento per momento senza la distrazione di immortalare costumi e tamburi. Spintoni e piedi nella schiena dei bambini intorno a me compresi. Mi dispiace per chi legge, ma forse va bene cosi, perchè un evento del genere merita di essere visto e vissuto dal vivo. Non si può trasmettere una carica simile di energia, vitalità, nervi, corpi umani, odore acre della pelle sudata e contatto con le persone accanto a te, un contatto che subito fuggi schizinoso e poi finisci per accettare. Un senso della musica, del ritmo, del rapporto con il corpo totalmente diverso da quello al quale sono abituata e che qui è connaturato alle persone, ai bambini. Che regalo questa serata. Penso di avere gustato un altro pezzettino d’Africa, che forse non potrò mai dire di “possedere”, ma almeno di avere visto, annusato.


Ps. Foto: i bambini appartengono a una delle scuole locali di Bagamoyo di ballo e musica tradizionale . Si sono esibiti anche loro durante il festival. L’altra foto l’ho scattata di nascosto durante un’esibizione domenicale sulla spiaggia di un’altra scuola di ballo di Bagamoyo.