domenica 27 aprile 2014

ASANTE SANA TANZANIA, TUTAONANA TENA. Parto e porto con me..

Stasera parto, lascio Bagamoyo, la Tanzania. Si torna a casa. in Italia. Le valigie sono fatte. Riempire i 28kg a disposizione è stato veloce. 

Ieri mi sono presa un po’ di tempo, sono scesa in spiaggia e mi sono concessa una lunga passeggiata a piedi scalzi percorrendo una strada fatta milioni di volte in questi mesi, ma che ora ha un sapore un po’ diverso. Il sapore dei saluti. Mi sono tolta gli occhiali, talmente scegnati dopo questi 8 mesi di Tanzania da essere ormai inutilizzabili. Me li sono tolta per non essere distratta da volti e dettagli e farmi invece assorbire da quest’aria, per respirarla fino all’ultimo.

Ho pensato alla Tanzania. Ho provato a pensare a questa partenza che non riesco a mettere a fuoco. Ci ho provato, ma davvero non riesco a realizzare che da domani questa non sarà più la mia quotidianeità. Niente lacrime, niente magone, niente addii strappalacrime. Mi sento talmente piena, talmente riconoscente, che non c’è spazio per altro. So che la botta verrà fuori più avanti. Ma per adesso ho scelto di fare quello che la Tanzania mi ha insegnato

La Tanzania mi ha insegnato a ringraziare la vita come mai prima. La vita che non smette mai di provocarti, di punzecchiarti, di metterti alla prova. Come un bambino che non ti lascia stare anche quanto tu sei stanco morto e vorresti solo lasciarti andare. Chiede attenzione. Vuole vederti reagire. Tante volte sono stata sul punto di mandarla a quel paese in questi mesi questa vita. E alla fine non sono mai riuscita a farlo. Perchè la vita è capace di stupirti ogni giorno. Di regalarti sempre molto più di quello che tu saresti mai in grado di procurarti da solo. La Tanzania mi ha insegnato a  vivere ogni giorno fino in fondo, senza voler riempire ad ogni costo ogni minuto con impegni e programmi dettagliati, ma semplicemente accogliendo quello che ogni giornata può darti, mpaka usiku, fino a notte, perchè può sempre succedere qualcosa, naturalmente accettando i cambi di programma, l’inatteso, le soprese, le cose che non vanno come vuoi tu. La Tanzania mi ha costretto a uscire da me stessa, a scoprire che il mio modo di pensare era solo uno dei tanti, e che la scelta questa volta era o trincerarmi in me stessa o aprirmi al mondo, alle sue condizioni. In silenzio, ascoltando.

E adesso parto. Parto e porto con me questa giornata di cielo limpido e blu che fa presagire la fine della stagione delle piogge, segnato da nuvole gonfie e vive. Questo mare cristallino che dopo i mille cambi di corrente e di maree nelle ultime settimane è tornato ad essere quello di settembre, di quando sono arrivata, calmo e placido, un mare che mi aveva lasciato senza fiato. Le conchiglie dai mille colori e i granchietti che entrano e escono da buchi invisibili in mezzo alla sabbia facendoti il solletico sotto i piedi.

Parto e porto con me l’intimità dei pasti condivisi, con colleghe, amici, vicini di casa. L’ugali o il riso mangiato con le mani dallo stesso piatto, per terra seduti vicini sulla stessa stuoia, con le mani che si sfiorano e si incastrano. Il pesce fritto comprato al mercato e mangiato da un comune sacchetto di plastica. La colazione consumata insieme alle colleghe, sedute sui freschi pavimenti di terra battuta del vecchietto che tutte le mattine ci prepare bagia e salsa di cocco e ci apre le porte di casa, le schiene appoggiate alle pareti. Un piatto di patatine fritte condiviso o una tazza di zuppa di pesce bollente servita in tazze di plastica dalla dubbia igiene, bevuta in piedi con un amico, per strada, davanti a uno dei tanti banchetti che rendono viva con i loro fuochi e i loro odori la sera di Bagamoyo. Il chapati, imparato a cucinare con la padrona di casa.
Parto e porto con me il suono degli ngoma, i tamburi tradizionali, e delle chitarre che tutti qui sanno suonare, e queste voci dolcissime e penetranti dove il ritmo africano si fonde con la malinconia del mondo arabo. Canzoni cantate con la facilità con cui si fa un sorriso o scende una lacrima, per strada, in spiaggia, mangiando arachidi abrustoliti in padella.

Parto con la pelle bruciata dal sole, spalle e collo abrustoliti da un sole che quando batte non ha pietà di nulla, diretto, intenso e violento come questo continente. Piedi in cui si è impresso a fuoco il segno dei sandali a ricordarmi i chilometri di strada percorsi a piedi, in monitoraggio in giro per il distretto di Bagamoyo camminando tra palme e banani, o in mezzo alla polvere, al fango, alla sabbia, al mare. Capelli cresciuti in fretta e senza controllo, ribelli e schiariti dal sale e dal sole.

Parto con l’odore di riso cotto nel cocco, frutta macerata al sole, patatine fritte e pesce lasciato a seccare sulla sabbia. Odore di sapone di bucato fatto a mano, di spezie e di pelle diversa dalla mia.
Parto con in bocca il sapore e già la nostalgia di cibi che farebbero impallidire il mio medico e che credo abbiano messo a dura prova il mio fegato. Il croccante di arachidi e zucchero comprato a 100 scellini a pezzo, i vitumbua caldi e umidi d’olio, l’urojo - la zuppa zanzibarina con polpettine di patate e di cereali, l’ukuajo- la salsa di tamarindo che accompagna le patatine fritte, e il mio adorato “chapati – mchicha”: versione tanzaniana di piadina e bietole cotte nel cocco, che a tutti lasciano il retrogusto di sabbia e sassolini ma di cui io vado matta.

Parto con in valigia molti meno vestiti di quando sono arrivata, la metà ho dovuto buttarla perchè letteralmente consumata. In cambio, porto con me kitenge e kanga coloratissimi, regali d’addio che racchiudono storie e ricordi, e vestiti fatti di quelle stesse stoffe.

Parto con il rumore del mare nelle orecchie e nel cuore, la luce delle mille stelle di questo cielo nerissimo e lo scrosciare di questa pioggia infingarda che comincia a cadere all’improvviso, quando un attimo prima splendeva il sole. Il rombo dei pikipiki nelle orecchie e la polvere sempre attaccata alla pelle. L'uccellino che ha fatto il nido nel soffitto della chiesa in cui vado ogni domenica e il cui entrare e uscire mi hanno distratto fino all'ultimo giorno.

Parto con un ringraziamento ininterrotto nel cuore per tutto quello che ho ricevuto, per quello che ho visto, per le persone che ho incontrato, per quello che ho imparato. Parto con la convinzione di essere fortunatissima e che la vita è un dono meraviglioso. Ecco si, la Tanzania mi ha ricordato ancora una volta l’importanza del sorridere alla vita.

Parto con nelle orecchie le parole di questa canzone di Mzungo Kichaa, Ndugo na Jirani – Parenti e amici
Twalumba kabotu / Twalumba kabotu mama… baba
“Ndugu zangu, nawashukuru sana / Tumepambana katika ulimwengu / Muda umefika wa kuachana / Tuagane kwa furaha sitaki lawama / Ninakokwenda nayo nikuzuri / Majani yanaota na maji yanakwenda / Nitafurahi ukicheka kuliko kusononeka / Kilatukiachana tutaonana tena
Ninaenda zangu, nina kimbia / Ukiniomba kubaki nita anza kulia
Ndugu na jirani, rafiki na mtu flaani / Muko na mimi moyoni / Mola tu ndyio ana jua / Ndiyo maana tusaidiane / Tuheshimiane / Kuna siku tuta achana, peponi je tutaonana? / Ulimwenguni haturudi tena / Tupendane tukiwa hai”
Asante sana Tanzania. Mungo akipenda tutaonana tena. Grazie mille Tanzania, a Dio piacendo, ci vedremo ancora.

venerdì 25 aprile 2014

Consigli di viaggio - Kwenda Iringa




Ultima settimana in Tanzania. C’è cosi tanto che non ho visto, che non so. Che a volte rischia di fami dimenticare tutto quello che invece ho avuto la fortuna di vedere, di incontrare, di conoscere. La famosa questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Con le ultime briciole di forza che ancora mi restano ho sfruttato i giorni di Pasqua per un viaggetto al sud, per vedere un po’ di quella Tanzania profonda, cosi lontana dalla costa e dal mare di Bagamoyo di cui in questi mesi ho sempre sentito solo parlare. IRINGA. Un nome che mi è finito nelle orecche cosi tante volte in questi mesi. Una parola, un posto infilato in discorsi con amici e conoscenti, con persone incontrate per caso in questa mia Tanzania che è stata tutto un incontro casuale.

E cosi sono partita. Nonostante i ponti crollati, la strade interrotte, i discorsi catastrofici di amici che mi sconsigliavano di prendere i mezzi pubblici in questa stagione delle piogge che nelle ultime settimane ha messo ai ferri corti il paese, facendo morti e sorprendendo i pacifici Tanzaniani. Sono partIta con Neema, la mia amica coreana, e Eva, la sua capa, sempre coreana. Sono partita giovedi pomeriggio, alla volta di Dar es salaam.Ho preso il dala dala sotto un sole che era di nuovo riapparso quasi a smentire i miei dubbi e ritrosie. Viaggio perfetto, sono arrivata a Dar in 2 ore pulite e mi sono messa ad aspettare Neema che tornava da Zanzibar, al distributore di fornte alla stazione degli autobus. Punto di osservazione perfetto. Mi guardavo intorno, serena, sotto un cielo che cambiava svelto colore passando in rassegna tutte le gradazioni dall’azzurro al cobalto al blu intenso della notte africana, con striature rosate, violacee e gialle. E poi è scesa la notte, guardavo la gente correre a casa, e le luci che piano piano si accendevano, dentro le case, dentro le botteghe, sugli autobus stipati in vista del ponte di Pasqua. E nell’aria quell’odore indefinibile di mille sapori che per me è sempre odore di buono qui in Tanzania. Odore di patatine fritte, che ho imparato a cucinare davvero solo qui, di mais cotto alla brace, di dolcetti al sesamo venduti in pezzi di giornale. Odore di vita, di donne che cucinano, di gente xhe vive insieme, che viaggia insieme, mani che si toccano, sguardi che si incrociano, in strada, sempre. Dopo una notte di piani di viaggio rapidi e scherzosi con Neema e Eva, e un sonno che è stato troppo corto, alle 5 e mezza del mattino eravamo già su un bajaji , per correre a cercare un autobus per Iringa. L’arrivo a Ubungo, la stazione  di Dar da cui partono le corriere per tutto il paese è sempre qualcosa di suggestivo. Per me è la rappresentazione in terra dell’inferno. Nell’oscurità prima dell’alba ancora di più. La ressa, le grida, le valigie che ti cadono addosso, i  bambini che ti cadono sui piedi, le spinte, e adesso anche il fango. Un’umanità viva e pulsante, compatta e densa come un mare di petrolio che avanza indifferente a te, ai tuoi pensieri, ai tuoi piani. Dopo contrattazioni infinite siamo riuscite a prendere posto su un autobus sgangheratissimo che sarebbe partito dopo 2 ore. Mi sono seduta vicino al finestrino e nell’attesa mi sono messa a guardare fuori: Dar si sveglia, il cielo diventa chiaro. Ci sarà il sole.  Donne in camice grigio spazzano nel fango con grandi scope di legno  e raccolgono la sporcizia con palette di plastica piene di crepe, riempiendo enormi cestini di cemento. Un esercito di donne in camice bianco e foulard dello stesso colore in testa cominica a passare intorno agli autobus vendendo pane in cassetta e tortine. Il mese scorso erano i biscotti al cioccolato. Vendono tutte le stesse cose. Le più fortunate, le più svelte, riescono a rifilare un pacco di pane o un sacchetto di tortine ai viaggiatori (1000 scellini a sacchetto per 10 tortine, 50 cent..). Le ritardatarie si accontentano di mostrare in silenzio i sacchi di plastica.
I viaggiatori salgono  alla spiacciolata e l’autobus si riempe di risate e parole e abbracci e mani tese a passarsi borsoni di pastica e zaini usati. Partiamo. Uscire da Dar è come sempre complicato. Passiamo un’ora incollonnati. Macchine e autobus di tutte le forme e misure. Tra noi, passano svelti i venditori ambulanti, nel caso tu non fossi riuscito a rifornirti prima di ogni genere di prima necessità. Giornali, occhiali da sole, torce, e poi biscotti, ancora tortine, acqua e soda. E poi via, verso sud. Il viaggio è meraviglioso. Tutto scintilla sotto un sole pulito e fresco. Kibaha, Chalinze, posti che conosco per i monitoraggi di progetto ma che oggi hanno un sapore un po’ diverso, il sapore dei saluti. Il sapore dei ringraziamenti. Per essersi fatti conoscere e scoprire da me. E poi via ancora verso Morogoro. Compaiono le prime colline e montagne dietro il profilo delle palme. Verdissime.  Uno spettacolo bellissimo. Arrivare a Morogoro è entrare dentro il caos delle città mercato, coloratissime, vive. Banchi di frutta e verdura che a Bagamoyo non vedo da dicembre, per via delle piogge. File di pomodori, patate, cavoli, ma anche manghi, avocadi, cocomeri, ananas fuori stagione. I venditori ambulanti battono forte contro i portelloni dell’autobus per attirare la nostra attenzione. Arachidi, noccioline, ancora gli intramontabili biscotti e tortine, pane in cassetta, pannocchie bollite, sambosa, cipolle vendute in sacchettini di plastica, acqua e succhi e occhiali da sole. Chiedo delle noccioline e il ragazzotto invece che darmi il resto mi rifila due pacchetti non richiesti al posto di uno solo. Dopo 8 mesi riesco ancora a farmi fregare. Il viaggio continua verso Mikumi  e il National Park.. Le palme vengono sostituite da file infinite di Baobab, di tutte le taglie e forme. Attorcigliati, verdi, secchi, dai tronchi più o meno massicci. Maestosi e placidi. Ai bordi della strada, i babbuini ci guardano tranquilli. E poi piano, avvicinandosi a Iringa, il paesaggio cambia ancora. Le montagne si fanno più rocciose, punteggiate da grandi pietre tondeggianti. Ancora più avanti compaiono i girasoli. Campi infiniti di girasoli e mais. Ci siamo quasi. Arriviamo a Iringa verso le 5 e mezza del pomeriggio. In ritardo sulla tabella di marcia, ma che importa. L’aria è fresca, e mi stupisco a camminare per questa città che ha cosi poco di tanzaniano. Costruita in pendenza, le strade ordinate, casette dai tetti a punta, caffè per turisti e espatriati. Un sapore diverso nell’aria, un po’ di montagna. Anche la gente è diversa. Un nero più intenso della pelle, tratti diversi. Mi incanto a guardare volti bellissimi. Ci perdiamo mille volte per raggiungere la guest house e cosi riusciamo a vedere il mercato generale, dove troneggiano enormi ananas maturi che mi fanno quasi commuovere, i giardini pubblici con il pratino all’inglese e le targhe a commemorare i morti delle ultime guerre: le due guerre mondiali certo ma anche le rivolte dei capi locali contro l’amministrazione tedesca, la torre dell’orologio, il Masai market, dove tra stradine di fango e bottegucce di legno puoi trovare i famosissimi (ameno per me) animaletti di stoffa e collane masai e borse e utensili da cucina in legno.

Il giorno dopo la nostra meta è Isimila, 30 km dal centro di Iringa. Per chi non lo conoscesse, come me prima di venire qui, si tratta di un sito naturale in cui l’acqua ha scavato le rocce creando sorte di canyon suggestivi. Quella che un tempo era una valle che racchiudeva un lago è oggi un insieme di pareti e colonne di rocce scavate e “intagliate” dall’acqua. Lasciamo la guest house sotto un cielo che promette pioggia. Arriviamo allo stand degli autobus e mi metto a cercare un dala dala. Anche qui, alla fine, dopo le solite contrattazioni troviamo un pulmino che per 1000 scellini sembra vada a Isimila. Siamo stipati in 25 su un pulmino da 10 posti. Bambini, signori in giacca e cravatta che vanno in giro per affari, donne con cesti di verdura, ce n’è per tutti i gusti. Sotto un cielo sempre più nero usciamo da Iringa e percorriamo un saliscendi di strade in mezzo a monti e campagna. Il pulmino ci scarica davanti a un campo di girasoli e l’autista ci dice: ecco Isimila. Scendiamo e ci addentriamo in mezzo ai campi, tra girasoli
al
ti 2 metri, case di argilla e contadini che lavorano i campi con i cappelli di paglia in testa e un saluto cordiale al nostro passaggio. Arriviamo all’ingresso del parco. Per i residenti, o per chi come noi ha il resident permit, l’ingresso costa 1000 scellini. A fronte dei 20000 richiesti agli stranieri. Una studentessa di 19 anni, Elizabeth, ci fa da guida tra le pareti rocciose e i rigoli di acqua biancastra. Si muove sicura nel fango, con le infrandito ai piedi e un ombrello enorme in mano che ha preso per ripararci dalla pioggia che cominica a cadere fina. Sembra di entrare in un modo incantato. Mi sono sempre immaginata cosi il deserto dei tartari di Buzzati. Una landa desolata e brulla, dura e imponente, con qualcosa di fascinoso. Riusciamo a tornare a Iringa prendendo al vole un autobus che viene da sud , da Njombe e che si ferma all’ultimo vedendoci sulla strada. Sotto una pioggia battente passiamo il resto della giornata a visitare negozietti di souvenirs e artigianato, come il Matumaini Centre, un centro di formazione per ragazze madri, che ha iniziato finanziando corsi di formazione professionale gratuiti e che poi ha iniziato a vendere i prodotti realizzati dalla ragazze: bellissime coperte reliazzate con stoffe locali, borse, vestiti, grembiuli da cucina, e i miei adorati pupazzetti raffiguranti elefanti, leoni e giraffe.

La mattina dopo, domenica di Pasqua, sveglia all’alba. Abbiamo l’autobus alle 6 di mattina. Un’altra camminata nell’oscurità. Adoro questi momenti, in cui le città si svegliano, i negozi vengono aperti piano piano, comincia a salire il brusio del giorno. Lo stand è già in fermento, tante corriere scaldano già i motori per la partenza. Pronti per un altro viaggio in questa Tanzania che mi ha fatto scoprire e apprezzare sempre di più la bellezza di questi viaggi infiniti, condivisi, con gli autisti che ti aspettano, che ti fanno salire in corsa, che ti gridano dietro per la tua lentezza o per i troppi bagagli ma che poi ti aiutano a caricare anche i sacchi di patate e carbone. Forse sono solo una irriduvcibile sentimentale, ma non riesco a non amare questi viaggi che ti lasciano stremata, questi viaggi fatti di colori e odori di una vita che si impone, di autisti e passeggeri uniti in una sorta di fratellanza segreta, che ti offrono banane fritte comprate per strada da sacchettini di plastica nera; di imprevisti, di motori che si rompono lungo la strada, di soste non previste, con la gente che ne approfitta per comprarsi una pannocchia o cercare un bagno. E sempre questi cieli meravigliosi, enormi, che ti lasciano sempre stupefatto, sia che piova che ci sia il sole. Un nuovo arrivo a Dar, sotto la pioggia, il caos della metropoli, la stanchezza e il mal di testa. E il sorriso sulle labbra per tutto quello che ho visto e conosciuto. Per essere partita ancora una volta.

Scusate la lunghezza di questo post, scusate il mio divagare. Questo post è come un viaggio in autobus in Tanzania.  Parti, e poi il viaggio si costruisce per strada, si allunga, fa giravolte, e non sei più tu che guidi.

martedì 11 marzo 2014

Microcosmi




A Dar es Salaam, tra Morogoro road e Kenyatta road c’è un posto che è come una porta su un altro mondo. Non ci sono cartelli o insegne a segnalarlo, è un passaggio un po’ stretto, quasi invisibile. L’ennesima sorpresa di quest’Africa che continua a stupirmi.

È il quartiere indiano, la zona dei templi indu. Qui, i colori, i suoni e gli odori di un’ India che non ho ancora mai visto si mescolano con i colori, i suoni, gli odori di un’Africa che comincia ad essermi familiare. Odori e colori che vengono da ancora più lontano di questa Africa già cosi lontana e che scopro qui per la prima volta. Un mondo dentro il mondo. L’India dentro l’Africa. Per me questo passaggio ha una collocazione geografica precisissima. Un venditore di cocco all’incrocio di due vie è la mia porta. Non lo puoi trovare su una cartina stradale. Ma per me è lì il passaggio, chiarissimo. Dopo avere camminato tra i banchi del mercato, tra arachidi e spezie e verdura e ceste di vimini e mais cotto alla brace, dove il sole fa marcire la frutta in fretta e nel naso entra l’odore forte delle bananen andate a male. Dopo essermi fatta spintonare da gruppi di donne forti e grosse, dai coloratissimi veli di un Islam che qui è colore e vivacità. Dopo avere rischiato di farmi rubare la borsa o essere presa in pieno da un pikipiki o da un bajaji in corsa. Dopo essere inciampata in una borsina di plastica nera perchè distratta dagli enormi cartelloni pubblicitari di una delle tante compagnie telefoniche del paese... Ecco, li c’è un punto in cui cambia la disposizione e la struttura degli edifici, in cui le cupole a volta sostituiscono i tetti squadrati, in cui vedi cambiare i tratti e i colori dei volti, la fogglia dei vestiti e dei cappelli, gli odori dei corpi. In cui il grigio del cemento dei vecchi palazzi si mescola al giallo e al rosa delle costruzioni indu. Capelli lunghi e lisci si mescolano ai capelli cortissimi o acconciati in treccine delle donne tanzaniane. E le barbe corte e grigie degli uomini sostituisco i visi glabri e nerissimi. Non te ne accorgi subito, poi c’è un attimo di stordimento. Camminando, ci sono momenti in cui non so più dove sono, in cui i punti di riferimento vengono meno, in cui ho paura di avere “sbagliato strada”, come quando apri una porta e ti ritrovi in una camera che non è quella che avevi lasciato.  

Lo stupore non mi ha fatto tornare indietro. Quando sono arrivata qui la prima volta, ho continuato a camminare  per queste strade, mi sono fermata davanti ai negozi  che esponevano sari, davanti alle botteghe di cibo indiano dove proprietari indiani si spiegano in uno swahili stentato con i camerieri tanzaniani, e poi mi sono fermata incantata davanti ai tanti templi e centri di cultura e spiritualità indu. È strano, bastava cambiare una via e tutto il paesaggio era cambiato. Ma nello stesso tempo era tutto cosi naturale, cosi reale. La prima volta che sono entrata in un tempio indu è stato a Mwanza, nel nord della Tanzania, la città in cui la comunità indiana è la più numerosa del paese. Il tempio era deserto, le guardie tanzaniane l’hanno aperto solo per me turista. Camminavo per i saloni ampi sentendo risuonare i miei passi. A Dar ho avuto la fortuna di trovare sempre i tempi aperti, pieni di gente che li “viveva” davvero. La prima volta, per caso, sono entrata in uno dei templi/centri dedicati a Pramukh Swami Maharaj. Intorno a me gruppi di persone che si incontravano lì per pregare, salutare amici e parenti, condividere il momento prima della cena, o semplicemente perchè fedeli a un rito che si porta avanti da anni. Mi sono trovata sempre per caso ad assistere a una cerimonia.  Guardavo in silenzio, facendomi piccola piccola per non disturbare. Lì, un’anziana mi ha visto, mi ha preso per mano e mi ha portato in un altra ala del centro per assistere alla “cerimonia della musica”dedicata a Swaminarayan, credo. Mentre mi raccontava la sua vita e quella del marito che aveva lavorato per una compagnia italiana di Dar, mi spiegava che da  40 anni tutte le sere veniva nel tempio per portare avanti quello che era diventato un rito, e mi spiegava il senso di quel trovarsi insieme ad altre donne, anziane, giovani, con bambini di tutte le età, per suonare e cantare.

Sono tornata a Dar. Sono tornata in questo microcosmo. Sono entrata nello stesso tempio. Tutto era al suo posto e nello stesso tempo diverso. Le persone camminavano come me per i saloni. Alcuni si inginocchiavano e recitavano litanie davanti a teche contenenti statue e giolielli antichi. Alcuni camminavano assorti intorno agli altari, e alla fine di ogni giro facevano rintoccare il suono di una campana. Un grande silenzio e una grande pace ovunque. Sono uscita e sono entrata nel tempio di fronte, il BAPS Shri Swaminarayan Mandir. Le sei di sera, l’inizio della celebrazione del fuoco. Uomini e donne si separano all’ingresso del tempio, nel momento in cui si tolgono le scarpe e le ripongono in apposite scarpiere di ferro. Le donne prendono la destra, dirigendosi verso il fondo del tempio, gli uomini entrano davanti. Ho seguito titubante un gruppo di ragazze che entravano alla spicciolata. Risate tra studentesse con gli occhiali spessi e i brufoletti dell’adolescenza. Poi raccoglimeno. Sono passata sotto volte decorate e colonne bianche scolpite,  sono entrata e  mi sono seduta sui tappeti blu imbottiti. Intorno a me, un vorticare di colori e stoffe diversi. Tuniche decorate con fili dorati a maniche corte portate su pantaloni in tinta. Vestiti lunghi fino ai piedi.  Le schiene nude delle donne più anziane, avvolte in sari che lasciano scoperte in parte la pancia e la schiena. Profumi di unguenti e creme che io non conosco. Giovani, donne di mezza età, anziane. Arrivavano a gruppetti o sole, si sedevano svelte e sempre svelte incrociavano le gambe mentre io non riuscivo a trovare una posizione comoda. E poi tutte concentrate a seguire la cerimonia. Io, che non capisco una parola di nessuna delle mille lingue dell’India, mi sono incantata ad osservarle, concentrandomi sui diversi vestiti, i particolari, gli orecchini al naso, l’acconciatura dei capelli, le unghie perfettamete laccate. Ogni tanto guardavo in alto, guardavo fuori, scendeva la sera e la luce del tramonto si rifletteva sulle colonne bianche. Nell’aria, odore di chapati cotto sulle braci in qualche ristorante vicino. Davanti, nella zona degli uomini, si alternavano predicatori e maestri che leggevano i veda, li commentavano, inserendo anche commenti sulla situazione attuale. Tra un discorso e l’altro, musica dolcissima e canti a cui la folla finisce sempre per partecipare, prima a bassa voce poi sempre più rapita. Un maxi schermo proiettava tutto quello che succedeva, anche i testi delle canzoni. Dove sono? Semplicemente sono rimasta lì, a guardarmi intorno, ad assistere a qualcosa che non capivo bene ma che ero contenta di poter vivere.

Alle 7 dovevo andare. Mi sono alzata, cercando di farlo svelta pur sapendo di risultare impacciata. Sono uscita lentamente, leggermente stordita, di nuovo sotto il colonnato già immerso nella sera scesa nel frattempo. Mi sono infilata le scarpe e sono uscita. La musica proveniente dall’interno si mescolava già con i suoni della strada. Per le vie era già cominciato il movimento della sera. La gente stava seduta ai tavolini dei ristoranti. Altri gruppetti di persone camminavano svelti verso casa o chiacchieravano davanti alle porte delle abitazioni. Giovani padri con bambine in braccio. Gruppi di donne in sari e le lunghe trecce di capelli finissimi. Commercianti indiani in piedi davanti alle loro botteghe. Ho fatto pochi passi ed eccomi di nuovo nella Dar africana. Sulle griglie si arrostiva la carne di manzo e il pesce, i banchi di frutta in chiusura, di nuovo odore di chapati e riso. Di nuovo volti e colori che cambiano. Dal vicino quartiere arabo arriva il canto del muezzin. Un altro microcosmo.

A Dar es Salaam la gente va di fretta. Soprattutto i wazungo, i bianchi. Sia quelli che vivono stabilmente qui ma che di solito risiedono e lavorano in altri quartieri, sia i turisti di passaggio che magari spendono a Dar solo poche ore, aspettando un battello per Zanzibar o un volo per una qualche altra destinazione.  Qui è difficile arrivarci. A meno che tu non voglia perderti.  Se ti prendi il tempo di camminare, di farti catturare da strade e vie che a prima vista sembrano intricate e impossibili da riconosere e ricordare ma che piano piano diventano parte di una topografia tutta particolare e personale, finisci per scoprire un cuore caldissimo e pulsante di questa Dar che non è solo il traffico e la confusione della stazione degli autobus di Ubungo (da cui partono i bus per tutto il paese) o lo sfarzo delle ville che si specchiano sulla Baia di Oyster. Colori odori suoni penetranti che mi entrano nel naso, negli occhi, nella pelle, si mescolano, si impastano al mio sangue, al mio sudore, insieme a tutto quello che ho vissuto, sovrapposizione dopo sovrapposizione. Mi costruiscono. E cosi ogni giorno la mia forma cambia un poco.

giovedì 6 marzo 2014

Venerdi mattina a Bagamoyo



Venerdi mattina a Bagamoyo. Una giornata cosi bella che non riesco a stare ferma, a non sorridere, a non muovermi. Dopo la burrasca di ieri, che sembrava davvero fare pensare all’inizio della stagione delle pioggie, con pioggia torrenziale e vento e acqua mescolata a polvere e sabbia, e fango nel quale ti impantani, e cieli sempre più neri e nuvole che non si svuotano ma si gonfiano sempre di più, è tornato a splendere il sole. Il tempo qui è come la sua gente, capace di farti incavolare, amareggiare, piangere, e dopo un attimo regalarti le soprese e i sorrisi più grandi.   Oggi c’è un cielo blu cobalto meraviglioso, l’aria fresca e il sole caldo, caldo caldo come solo il sole africano. Niente afa, niente umidità. Oggi si riesce a camminare spediti, non piegati da un calore soffocante che stende. Oggi i pensieri corrono veloci. Mentre venivo in ufficio, con la musica nel lettore, pensavo al mio essere in Tanzania, al mio esserci davvero. Forse l’ho realizzato davvero solo oggi. Quello strano e inspiegabile sentirsi un po’ a casa e un po’ sapere che questa non sarà mai davvero casa tua ma che alla fine va bene cosi. 
 E ci penso adesso, seduta sui copertoni delle macchine che qui fanno da “poltroncine da esterni”, davanti a casa di Mama Salumu, di fronte al mio ufficio, mentre aspetto le colleghe. Ci penso mentre seduta in mezzo a loro, guardo i bambini che piangono, ridono e leggono il mio libro di swahili. È un libro della seconda classe della scuola primaria, e abbiamo riso sul fatto che io sono più avanti di loro, che sono ancora in prima.  Ci penso mentre, ancora una volta, cammino  per queste strade assolate e polverose, a cui i miei piedi si sono ormai abituati. Ci penso mentre guardo i vecchi, seduti sui bordi esterni delle case, che mi guardano con le loro cofie ricamate in testa, le lunghe tuniche bianche e gli sguardi profondi, già pronti per andare in moschea.  E le donne con le ceste di foglie esiccate sulla testa e i kitenge allacciati in vita: prima di andare in moschea, loro, devono finire tutti i lavori di casa. Giornata di venerdi, tutto uguale agli altri giorni e tutto ancora più sonnolento e placido nella già sonnolenta Bagamoyo. La bottega all’angolo che serve da mangiare tutte le mattine, è chiusa, come tutti i venerdi. E cosi tanti altri piccoli negozietti. Le Mame che fanno i dolcetti della colazione oggi non lavorano: non c’è promessa di soldi che tenga. È venerdi. Anche le colleghe credo che respirino quest’aria: sono quasi le 9 e non si vede nessuno. Continuo a perdermi nella mia Bagamoyo. I ragazzi tornano a gruppi dalla spiaggia, dopo una notte di pesca in mare, per quello il venerdi non conta. Sanno di pesce, di alghe, di mare, i vestiti rovinati e i sorrisi larghi sulle bocche. Puoi sentirli arrivare annusando l’aria ancora prima che voltino nella via. Ora Neema è arrivata, si apre l’ufficio, mi siedo al mio tavolo. 
Pregusto quello che verrà: il canto del muezzin che fra qualche ora comincerà a chiamare alla preghiera del venerdi, il rincorrersi dei canti delle diverse mosche della città, e l’affrettarsi della gente alla preghiera, unico momento di frenesia della giornata, tutti divisi a gruppetti, le donne chiacchierando di cosa cucinare alla sera, gli uomini che si limitano a gesti di intesa e scosse del capo che corrispondono a precisi significati, i giovani con passo veloce aggiustandosi in ritardo le cofie in testa. Vedrò tutto questo dalla porticina dell’ufficio, una finestra su questo mondo brulicante che so che continuerà imperterrito e fedele a se stesso anche quando io non ci sarò più. I canti andranno avanti fino a sera. Accompagneranno la mia lezione di swahili del pomeriggio entrando dalle finestre scalcinate della scuola in cui prendo lezione. Accompagneranno il mio camminare verso casa, sulla spiaggia se la marea non è troppo alta.  Andranno avanti ancora più in là, a illuminare un’altra notte tanzaniana insieme alle stelle di questi cieli nerissimi. Un altro venerdi come tanti. Forse domani tornerà la pioggia, ma che importa?