Stasera parto, lascio Bagamoyo, la Tanzania. Si torna a
casa. in Italia. Le valigie sono fatte. Riempire i 28kg a disposizione è stato
veloce.
Ieri mi sono presa un po’ di tempo, sono scesa in spiaggia e
mi sono concessa una lunga passeggiata a piedi scalzi percorrendo una strada
fatta milioni di volte in questi mesi, ma che ora ha un sapore un po’ diverso.
Il sapore dei saluti. Mi sono tolta gli occhiali, talmente scegnati dopo questi
8 mesi di Tanzania da essere ormai inutilizzabili. Me li sono tolta per non
essere distratta da volti e dettagli e farmi invece assorbire da quest’aria,
per respirarla fino all’ultimo.
Ho pensato alla Tanzania. Ho provato a pensare a questa
partenza che non riesco a mettere a fuoco. Ci ho provato, ma davvero non riesco
a realizzare che da domani questa non sarà più la mia quotidianeità. Niente
lacrime, niente magone, niente addii strappalacrime. Mi sento talmente piena,
talmente riconoscente, che non c’è spazio per altro. So che la botta verrà
fuori più avanti. Ma per adesso ho scelto di fare quello che la Tanzania mi ha
insegnato
La Tanzania mi ha insegnato a ringraziare la vita come mai
prima. La vita che non smette mai di provocarti, di punzecchiarti, di metterti
alla prova. Come un bambino che non ti lascia stare anche quanto tu sei stanco
morto e vorresti solo lasciarti andare. Chiede attenzione. Vuole vederti
reagire. Tante volte sono stata sul punto di mandarla a quel paese in questi
mesi questa vita. E alla fine non sono mai riuscita a farlo. Perchè la vita è
capace di stupirti ogni giorno. Di regalarti sempre molto più di quello che tu
saresti mai in grado di procurarti da solo. La Tanzania mi ha insegnato a vivere ogni giorno fino in fondo, senza voler
riempire ad ogni costo ogni minuto con impegni e programmi dettagliati, ma
semplicemente accogliendo quello che ogni giornata può darti, mpaka usiku, fino a notte, perchè può
sempre succedere qualcosa, naturalmente accettando i cambi di programma,
l’inatteso, le soprese, le cose che non vanno come vuoi tu. La Tanzania mi ha
costretto a uscire da me stessa, a scoprire che il mio modo di pensare era solo
uno dei tanti, e che la scelta questa volta era o trincerarmi in me stessa o aprirmi
al mondo, alle sue condizioni. In silenzio, ascoltando.
E adesso parto. Parto e porto con me questa giornata di
cielo limpido e blu che fa presagire la fine della stagione delle piogge,
segnato da nuvole gonfie e vive. Questo mare cristallino che dopo i mille cambi
di corrente e di maree nelle ultime settimane è tornato ad essere quello di
settembre, di quando sono arrivata, calmo e placido, un mare che mi aveva
lasciato senza fiato. Le conchiglie dai mille colori e i granchietti che
entrano e escono da buchi invisibili in mezzo alla sabbia facendoti il
solletico sotto i piedi.
Parto e porto con me l’intimità dei pasti condivisi, con
colleghe, amici, vicini di casa. L’ugali o il riso mangiato con le mani dallo
stesso piatto, per terra seduti vicini sulla stessa stuoia, con le mani che si
sfiorano e si incastrano. Il pesce fritto comprato al mercato e mangiato da un
comune sacchetto di plastica. La colazione consumata insieme alle colleghe,
sedute sui freschi pavimenti di terra battuta del vecchietto che tutte le
mattine ci prepare bagia e salsa di cocco e ci apre le porte di casa, le
schiene appoggiate alle pareti. Un piatto di patatine fritte condiviso o una
tazza di zuppa di pesce bollente servita in tazze di plastica dalla dubbia igiene,
bevuta in piedi con un amico, per strada, davanti a uno dei tanti banchetti che
rendono viva con i loro fuochi e i loro odori la sera di Bagamoyo. Il chapati,
imparato a cucinare con la padrona di casa.
Parto e porto con me il suono degli ngoma, i tamburi
tradizionali, e delle chitarre che tutti qui sanno suonare, e queste voci
dolcissime e penetranti dove il ritmo africano si fonde con la malinconia del
mondo arabo. Canzoni cantate con la facilità con cui si fa un sorriso o scende
una lacrima, per strada, in spiaggia, mangiando arachidi abrustoliti in
padella.
Parto con la pelle bruciata dal sole, spalle e collo
abrustoliti da un sole che quando batte non ha pietà di nulla, diretto, intenso
e violento come questo continente. Piedi in cui si è impresso a fuoco il segno
dei sandali a ricordarmi i chilometri di strada percorsi a piedi, in
monitoraggio in giro per il distretto di Bagamoyo camminando tra palme e
banani, o in mezzo alla polvere, al fango, alla sabbia, al mare. Capelli
cresciuti in fretta e senza controllo, ribelli e schiariti dal sale e dal sole.
Parto con l’odore di riso cotto nel cocco, frutta macerata
al sole, patatine fritte e pesce lasciato a seccare sulla sabbia. Odore di
sapone di bucato fatto a mano, di spezie e di pelle diversa dalla mia.
Parto con in bocca il sapore e già la nostalgia di cibi che
farebbero impallidire il mio medico e che credo abbiano messo a dura prova il
mio fegato. Il croccante di arachidi e zucchero comprato a 100 scellini a
pezzo, i vitumbua caldi e umidi d’olio, l’urojo - la zuppa zanzibarina con
polpettine di patate e di cereali, l’ukuajo- la salsa di tamarindo che
accompagna le patatine fritte, e il mio adorato “chapati – mchicha”: versione
tanzaniana di piadina e bietole cotte nel cocco, che a tutti lasciano il
retrogusto di sabbia e sassolini ma di cui io vado matta.
Parto con in valigia molti meno vestiti di quando sono
arrivata, la metà ho dovuto buttarla perchè letteralmente consumata. In cambio,
porto con me kitenge e kanga coloratissimi, regali d’addio che racchiudono
storie e ricordi, e vestiti fatti di quelle stesse stoffe.
Parto con il rumore del mare nelle orecchie e nel
cuore, la
luce delle mille stelle di questo cielo nerissimo e lo scrosciare di
questa
pioggia infingarda che comincia a cadere all’improvviso, quando un
attimo prima
splendeva il sole. Il rombo dei pikipiki nelle orecchie e la polvere
sempre attaccata alla pelle. L'uccellino che ha fatto il nido nel
soffitto della chiesa in cui vado ogni domenica e il cui entrare e
uscire mi hanno distratto fino all'ultimo giorno.
Parto con un ringraziamento ininterrotto nel cuore per tutto
quello che ho ricevuto, per quello che ho visto, per le persone che ho
incontrato, per quello che ho imparato. Parto con la convinzione di essere
fortunatissima e che la vita è un dono meraviglioso. Ecco si, la Tanzania mi ha
ricordato ancora una volta l’importanza del sorridere alla vita.
Parto con nelle orecchie le parole di questa canzone di
Mzungo Kichaa, Ndugo na Jirani – Parenti e amici
Twalumba kabotu / Twalumba kabotu
mama… baba“Ndugu zangu, nawashukuru sana / Tumepambana katika ulimwengu / Muda umefika wa kuachana / Tuagane kwa furaha sitaki lawama / Ninakokwenda nayo nikuzuri / Majani yanaota na maji yanakwenda / Nitafurahi ukicheka kuliko kusononeka / Kilatukiachana tutaonana tena
Ninaenda zangu, nina kimbia / Ukiniomba kubaki nita anza kulia
Ndugu na jirani, rafiki na mtu flaani / Muko na mimi moyoni / Mola tu ndyio ana jua / Ndiyo maana tusaidiane / Tuheshimiane / Kuna siku tuta achana, peponi je tutaonana? / Ulimwenguni haturudi tena / Tupendane tukiwa hai”
Asante sana Tanzania. Mungo akipenda tutaonana tena.
Grazie mille Tanzania, a Dio piacendo, ci vedremo ancora.