lunedì 26 gennaio 2015

Il mio Timket

E' poco piu di una settimana che sono ad Addis. Ci sarebbero mille cose di cui vorrei parlare, di questa città e di questo paese che ho troppo poco tempo per vedere con calma ma che mi lancia ogni istante, ogni minuto sensazioni e regali incredibili, che cerco di afferrare con foga per paura di perdere. Una città e un paese pieni di storia, di cultura, con una vitalità musicale e artistica incredibile, un passato che emergee ad  ogni angolo, mostrato e vissuto nel presente, senza sentimentalismi nostalcigi. Una corsa alla modernità sfrenata, Addis lanciata ad essere una delle prime capitali africane, una smania costruttiva ed edilizia con tante luci ed ombre ma che lascia colpiti pensando alle opere eternamente inconcluse che si vedono in Italia. E allo stesso tempo, una spritualità e una religiosità fortissime, sempre presenti, vissute e mostrate con fierezza priva di orgoglio. Contrasti fortissimi che sembrano avere trovato un accordo tutto particolare, e che sembrano lasciare stupita solo me. Scelgo di scrivere del Timkat, una delle feste  più importanti del paese, una festa religiosa, il Battesimo di Gesù, ma che qui diventa un momento di aggregazione e identificazione sociale, comunitaria, nazionale. in tanti scrivono del Timket, questo è il mio Timket, è stato il mio arrivo ad Addis.  

L’Etiopia è un paese a maggioranza cristiana, ortodossa e copta, con un calendario che è sposatato rispetto al nostro di una settimana circa. Il Natale viene festeggiato il 6 gennaio e il Timket, il Battesimo di Gesu, ricorrenza che la chiesa cattolica ha celebrato l’11 Gennaio senza una particolare attenzione, qui in Etiopia è una delle feste più importanti e sentite del paese, 3 giorni di celebrazioni e riti e festeggiamenti che quest’anno sono caduti il 17, 18 e 19 gennaio. La preparazione dei festeggiamenti comincia il sabato, ma le giornate fondamentali del Timket sono la domenica e il lunedi. Nel corso del pomeriggio che precede il Timket (il lunedi) infinte e spettacolari processioni partono da tutte le chiese delle città per portare i sacri Tabot (copie dell’arca dell’Alleanza, che secondo la leggenda o la tradizione sarebbe conservata proprio in Etiopia) verso un unico punto prestabilito, vicino a una fonte o sorgente d’acqua. Le processioni sono aperte dai bambini che cantano, suonatori di tamburi e altri strumenti, donne che accompagnao il corteo e poi i sacerdoti in paramenti sacri e preziosissimi che portano a spalla i tabot. Tra la notte della domenica e la mattina del lunedi vengono celebrati i i riti di benedizione dell’acqua a cui seguono ancora più sontuose e sentite celebrazioni di ringraziamento, accompagnate da balli e canti. Dopo di che, ogni comunità riporta il proprio tabot nella propria chiesa sempre sotto forma di processioni partecipatissime e animatissime. La città in cui il Timket è piu sentito, o forse solo più spettacolarizzato, è Gondar, gioiello dell’architettura medievale, ma anche Addis Abeba riserva un’attenzione speciale al Timkat. 

Arrivata ad Addis tutti mi avevano parato del Timkat. Chi per dirmi “chiuditi in casa o approfitta del lunedi di festa per  farti un viaggetto” (soprattutto gli expats), chi per dirmi “scendi in strada e mischiati alla folla, un’occasione cosi non ti ricapita più”(i colleghi etiopi). Non amo le folle, ma amo cercare di entrare nella cultura del posto e delle persone con cui vivo. La domenica pomeriggio con una collega mi sono avventurata verso Jan Meda, un enorme campo da calcio designato come punto di ritrovo delle celebrazioni ad Addis. Una perfetta unione tra sacro e profano. Alle 3 del pomeriggio nel campo c’era ancora pochissima gente, e quella poca guardava con un misto di stupore e divertimento alle due povere e pallide farangi che a quanto pare avevano deciso di mescolarsi ai fedeli.  Per evitare di farci ridere a dietro abbiamo deciso di fare il percorso a ritroso ed andare verso una delle chiese da cui sarebbe partita la processione.  Ci siamo ritrovate in mezzo a una folla eccitata e felice che aspettava il passaggio della processione sacra per salutarla e accompagnarla fino a Jan Meda, nessuna ansia e irritazione di fronte al caldo e alla ressa, i bambini venivano fatti passare sulle spalle degli adulti perchè potessero osservare il passaggio del corteo, un esercito di ragazzi con le magliette delle rispettive chiese che stendevano tappeti rossi per permettere il passaggio del corteo e dei tabot, i nostri vicini ci spiegavano contenti lo svilupparsi dei vari riti e il senso dietro ognuno di loro. Poi i canti sono aumentati, e con loro le grida particolarissime delle donne, in lontananza ho visto i tabot portati a spalla dai sacerdoti, accompagnati da ragazzotti che li proteggevano con grandi ombrelli da sole rosso porpora bordati di ricami d’oro. Poi il corteo è passato, la folla intorno a noi si è spostata per accompagnarlo, e noi, stordite e emozionate, siamo tornate verso casa.  Pensavo di avere finito il mio timket. 

Il giorno dopo sono andata con alcuni amici a vedere un sito archeoligico appena fuori Addis. Abbiamo lasciato la macchina nello spiazzio di una chiesetta e abbiamo camminato per chilometri tra foreste di eucalipti e resti di chiese medievali scavate nella roccia. Siamo tornati alla macchina che era quasi mezzogiorno. Il momento in cui, finite le celebrazioni collettive, i fedeli riportavano gelosamente i loro tabot “a casa”. E mi sono ritrovata per la seconda volta in mezzo a questa strana specialissima processione, la macchina bloccata, tutta l’attenzione puntata sui tabot. Gli stessi canti del giorno prima, la stessa gioia sul volto della gente, bambini, ragazzi, donne e uomini in ambiti tradizionali o in abbigliamento da lavoro, anziani con il volti coperti e piagati dal sole. Di nuovo l’odore dell’incenso che si alza in alte fumate. Il rumore dei tamburi che accompagna i passi. Il sudore sui volti dei sacerdoti sotto il peso dei vestiti da cerimonia e dei altarini di legno. Un intero popolo in movimento che, sembrava a me, riprendeva in quei due giorni il pieno controllo di uno spazio socio-culturale che la modernità dei grattacieli, delle organizzazioni internazionali e dei caffè alla moda che hanno trovato casa a Addis pensa di potergli rubare. Due giorni in cui per le città a risuonare sono stati i canti dei fedeli, le grida acutissime delle donne, il mormorare sommesso delle preghiere, in cui le strade vengono chiuse e i taxi devono cambiare strada facendo innervosire i turisti, due giorni in cui a spiccare è il bianco dei vestiti e dei veli di cotone indossati dalle donne e dalle ragazze, le ginuflissioni fuori moda davanti ai sacerdoti nei sacri paramenti, la ressa, l’accalcarsi devoto e festoso delle persone. Volti, suoni, colori che si mescolano. Una spirtualità che colpisce, un po’ invadente, indefferente al turista e alla comprensione occidentale, indifferente a me che guardo con curiosità e che un po’ in imbarazzo scatto una foto, una spiritualità profonda che per due-tre giorni fa mettere un po’ da parte alle donne la minigonna e ai ragazzi la strafottenza da bad boys americani. Sono colpita. Martedi sono tornata in ufficio e non sembrava esserci nessun collegamento con quello che avevo visto e vissuto il giorno prima. Tutto finito. L’ambiente in ufficio è molto internazionale e misto, non c’è tanto spazio o tempo per le particolarità di ognuno. Ma momenti come il Timket mi aiutano a ricordarmi dove sono, mi aiutano a capire un po’ meglio questa Addis e questa Etiopia dai diversi volti, che stanno insieme, e che si lasciano scoprire davanti alla curiosità e alla voglia.

venerdì 9 gennaio 2015

Di saluti, fotografie, piccoli passi e sogni. In partenza per l’Etiopia

Deve esserci una legge fisica che non conosco. Più passa il tempo meno sono brava con arrivederci che hanno il sapore delle lunghe separazioni, e allora scelgo di affidare i saluti allo scritto, per raggiungere tutti, chi ho salutato velocemente, con una mail, con un sorriso, con una lacrima, chi forse non conosco neppure.

Questa notte riparto. Dopo ben 8 mesi passati a casa, in Italia, questa volta la destinazione è l’Etiopia, Addis Ababa, per un anno, lavorando su programmi legati alla violenza contro le donne. sono stati 8 mesi sereni, per certi versi “comodi”. Un lavoro coinvolgente e vicino a casa, tempo libero per dedicarsi a passioni e interessi, la vicinanza fisica di amici e parenti, la possibilità di muoversi liberamente, andare al cinema, a teatro, a conferenze. La possibilità di scegliere. Quando e cosa mangiare, quando e come farsi una doccia, tiepida, calda, bollente, gelata (nel mio caso questa opzione non viene mai considerata), prendere un gelato senza rischiare un’intossicazione, prendere una cioccolata calda in un caffè letterario. 8 mesi forse un po’ egoistici.

E poi l’ennesima candidatura inviata, una candidatura dove va tutto storto, dove i problemi tecnici, la tempistica e pure un po’ di sana razionalità sembravano invitarmi a lasciar perdere. E qualcosa che invece spinge a non mollare, a “crederci”, a impegnarsi e a vedere come va a finire. E poi arriva un risultato che non ho mai osato sperare o confessare, un risultato che per me è l’avverarsi di un sogno e che per tanti può apparire lontano, troppo faticoso. Un risultato che vuol dire lasciare la comodità, tanti progetti iniziati, tante relazioni importanti. Ancora una volta, per che cosa? Per qualcosa che lavora dentro, una convinzione, non quella di poter o dover cambiare il mondo, ma quella dell’avere la responsabilità di fare la nostra parte, con i mezzi, le conoscenze, gli ideali che ci appartengono. Ricominciando, rimettendosi in gioco, con fatica. Una persona cara mi ha detto che noi giovani dobbiamo tornare ad avere grandi sogni, che sempre più spesso la nostra generazione si nasconde dietro la paura o la scusa di non essere all'altezza di quello a cui siamo chiamati. Io ho grandi sogni. E non si tratta di ambizione economica o presunzione, anzi a volte ho paura a dirlo, e lo faccio sottovoce, dubitando di me stessa. Ma è vero. Ho grandi sogni, e credo che come me ci siano tante persone che hanno grandi sogni e che cercano di darci corpo nella vita di tutti i giorni. Con impegno e convinzione. Ma non da soli. Affidandoci a chi incontriamo, affidandoci alla vita.

Ad accompagnare questo scritto non c’è nessuna foto. Le foto verranno con il tempo. Per ora se penso a quello che mi aspetta ho solo un punto interrogativo, uno spazio nero immenso, un groviglio di emozioni indefinite, immagini e foto che puoi trovare su Google e che celebrano le bellezze di questo paese che a me resta ancora sconosciuto. Le foto, le immagini che io ho in mente ora sono quelle delle persone che mi hanno accompagnato fino a qui, a casa, in Madagascar, in Tanzania, che mi hanno fatto arrivare a questa nuova partenza. Una partenza fatta di mille foto, di mille piccoli passi. Mille piccoli segnalibri, saponette e cd  infilati all'ultimo momento in valigia. Le foto acquistano per me un valore quando sono parte del mondo che mi circonda, quello nel quale vivo e soffro e sorrido. Quando in quelle foto riconosco nomi, rumori, odori, quando riconosco il sudore dei volti come mio, quando riconosco la terra sotto i piedi come quella che anche i miei piedi hanno calpestato, quando riconosco il cielo immortalato come quello a cui ho guardato io. Scatti di vita, il mondo assume valore e colore se vissuto. E questa partenza io la sto vivendo con intensità, con paura, con entusiasmo, con un senso di vertigine provocato dall'incertezza e allo stesso tempo con la voglia di scavare, ancora una volta, ancora un giorno, dentro quell'incertezza, il motore più bello delle nostre giornate. E cosi anche l’Etiopia, sconosciuta, lontana, assume colore e sfumature e significati, pronti a trasformarsi con il passare dei giorni, come il cambiare del tempo, la polvere che diventa fango, la pioggia che copre le strade, per poi lasciare posto a un nuovo sole.


Torno a scrivere. Dopo mesi in cui quello che vivevo, sentivo, osservavo potevo comunicarlo molto spesso a parole, in cui potevo stringere le mani, toccare le spalle, guardare negli occhi delle persone intorno a me, degli amici cari, della famiglia, questa nuova separazione mi porta a riprendere la “penna”, per ringraziare chi mi ha accompagnato fino a qui e chi mi accompagnerà da qui in avanti, per colmare quella distanza, per riempirla e avvicinare i due bordi, per fare dei miei occhi quelli di chi legge, per rendere i miei ideali più comprensibili e vicini a chi legge, non per convincere, ma per riconoscere forse nell'altro, oltre ai km di distanza e alle scelte diverse, uno stesso entusiasmo, uno stesso impegno, uno stesso sogno.