Rieccomi qui. Dopo tante piccole battute d’arresto. Un brutto
virus intestinale. Una settimana senza corrente. Poi il taglio dell’acqua. E viaggi
infiniti con mezzi pubblici che, ammetto umilmente, mi logorano. E la
stanchezza. E la sensazione di non stare facendo nulla. Anzi, che tutto quello
che faccio alla fine non serve a niente. Perchè alla fine il mondo non lo cambi.
Perchè alla fine il mondo forse non vuole essere cambiato. E la voglia a volte
di “mollare tutto”. Ieri sera sono tornata dall’ennesimo monitoraggio in un villaggio
sperduto del distretto. Sfinita. Il mio unico desiderio era un bagno e un
letto. E lasciare il mondo al suo destino.
E poi come sempre, quando meno me lo aspetto, la bellezza di
quello che vivo, di quello che ho la fortuna di vivere viene fuori con forza.
Stamattina mi sono messa a rimettere a posto le foto
scattate. Non tanto per spirito ludico. Quanto per preparare i rapporti per il
lavoro. Ed è successa una cosa stranissima. Mi sono commossa. E non riuscivo a
non sorridere. Pensando ai due giorni trascorsi. La fatica e le difficoltà
incontrate non è che fossere sparite, ma c’era qualcosa di più forte che veniva
fuori.
L’obiettivo della visita oltre che monitoraggio era training
di refreshment sulla produzione di batik rivolto a un gruppo di ragazze che
abbiamo coinvolto in un programma di formazione professionale e empowerment
economico. Avevamo chiamato una formatrice da Dar es Salaam che ha un negozio
di produzione di diversi aritcoli con la tecninca del batik per spiegare nuove
tecniche di produzione alle ragazze. Le ragazze sono già capaci di realizzare
tessuti in batik e producono articoli che poi rivendono nel villaggio. Il nostro
obiettivo è quello di migliorare la qualità dei loro prodotti per pensare
magari di allargare il mercato delle vendite e migliorare la loro situazione. Ma
non è tutto cosi scontato. A volte hai l’impressione di pensare e ragionare con
tempi, obiettivi, e finalità che sono solo tuoi. A volte capisci che quello che
vorresti realizzare, quello che tu ritieni importante e giusto, magari non è
quello che sognano altre persone. E devi fare un passo indietro. Devi accettare
la diversità. Che non vuol dire gettare la spugna su tutta la linea, ma vuol
dire essere disposto a rimodulare i tuoi standard. È difficile. è difficile
concretamente modifiare attività e risultati soprattutto quando si parla di
progetti definiti in anticipo. È difficile in generale accettare che le cose
non vadano come avevi pensato tu. È difficile imparare a seguire altri tempi e
modi.
E poi c’è la fatica quotidiana di essere straniera. Di continuare
a non capire quello che la gente dice intorno a te e quella di non riuscire a
farsi capire. Quella di provare ogni minuto sulla tua pelle quanto fa male il
razzismo e una diversità che ti viene ricordata ogni istante. La fatica del non
essere chiamata mai per nome ma solo “muzungo” “bianca”. La fatica e l’amarezza
del rischiare di essere fraintesi. Del passare per l’ennesimo bianco che viene
per fare foto ricordo, senza riuscire a spiegare che quelle foto, quelle
registrazioni che tu fai servono per ottenere finanziamenti e sostegno alle
attività. La fatica del trovarsi in situazioni in cui tu ridi e ti accorgi che
non avresti dovuto farlo, o peggio, rimani serio mentre intorno a te le persone
scoppiano a ridere.
Eppure. Eppure. Eppure sono qui. E provo a starci. Con tutti
i miei limiti. E imparo tanto. Imparo un senso della solidarietà che non conoscevo.
Ho visto le ragazze lavorare insieme con un disinteresse che difficilmente vedo
in Italia. Tutte insieme tagliare, cucire, legare insieme i tessuti per poi
immergerli nelle bacinelle dei diversi colori. Senza distinzione del “mio” e “tuo”.
Ogni ragazza imparava dalla formatrice una diversa tecnica di colorazione o
intreccio del tessuto e poi la insegnava alle altre. E nello stesso tempo tutte
a darsi una mano a tenere i rispettivi bambini che le mamme si portano dietro
in tutto quello che fanno. Mentre una ragazza doveva lavare una tela, lasciava
il bimbo a un’amica per poi riprenderlo dopo un po’ di tempo e darsi il cambio.
È vero. A volte la confusione sale e sembra che non si concluda niente. Ma non
è vero. Piano piano il lavoro procede. Le tele sono state tagliate,
intrecciate, colorate, lavate e stese al sole tutte e quante. E alla fine ogni
ragazza è tornata a casa con le tele finite e quelle da finire, per produrre
articoli che poi visioneremo alla prossima visita.
La formatrice ha messo a lavorare anche me, per parcondicio.
E cosi tra un controllo dei nomi e un aggiornamento dei data base mi sono messa
pure a rifinire i tessuti che poi andavano tinti. Seduta sul prato insieme alle
ragazze. E quando mi sono messa a fare delle smorfie ai piccoli stanchi per il
lungo stare fermi , e i piccoli hanno riso, hanno sorriso anche le mamme.
L’ultimo giorno, c’è stato un momento in cui stavo davvero
per mollare. Ero andata con alcune ragazze a visionare alcuni strumenti di
lavoro che andavano fotografati per catalogazione. Loro chiacchieravano e io
non riuscivo a capire nulla di quanto dicevano. Ho capito che se ne erano rese
conte, e un po’ ridevano della cosa. Mi sentivo una stupida. Cosi fuori posto. Con
loro, nel villaggio. Mi sentivo che forse avrei fatto molto meglio a stare a
casa mia forse. Abbiamo fatto le foto. Io ho detto “grazie “alla ragazza che
era con me e volevo sprofondare. E lei ha sorriso timida. Siamo uscite dalla
stanza e proprio in quel momento per strada passava suo marito. Me l’ha
presentato subito. Si vedeva che ci teneva. Mi ha chiesto di far loro una foto.
Era raggiante. Io ho fatto le foto, gliele ho mostrate, ho stretto la mano al
marito sorridendo. E poi è successa un’atra cosa strana. Lei mi ha preso per
mano. Cosi semplicemente. Siamo tornate dalle altre ragazze cosi. Io e lei per
mano. Lei che ha 20 anni, un marito e una bambina di qualche mese. Lei che
lavora da diversi anni, che ha le mani segnate dal lavoro come una donna
italiana di 50 anni ma ha il sorriso di una bambina. A fare il percorso inverso
per il villaggio, tornando dalle altre ragazze, mano nella mano con lei, mi
sono sentita cosi “forte”. Riuscivo a guardare la gente intorno a me negli
occhi. Le ho chiesto il nome della sua piccolina che si portava sulla schiena. In
swahili finalmente. E lei mi ha risposto sorridendo di nuovo.
Magari per lei non ha significato molto. Magari oggi si è
già scordata di me. Ma per me quel momento è stato bellissimo.
Forse sembra paradossale. Ma questa mattina non sento la
fatica. Guardo le foto e penso che alla fine, in un modo o nell’altro, in quei
momenti sono stata parte anch’io di quelle giornate. E penso che se le ragazze
si ricorderanno e riusciranno ad usare anche solo alcune delle nuove tecniche insegnate
durante la formazione sarà già un risultato importantissimo e quello che
facciamo non è inutile. Sono tornata a casa con un batik anch’io, era una delle
prime prove fatte e doveva essere ancora migliorato. ma a me sembra bellissimo.