sabato 19 ottobre 2013

DOPO OGNI BATTUTA D'ARRESTO..



Rieccomi qui. Dopo tante piccole battute d’arresto. Un brutto virus intestinale. Una settimana senza corrente. Poi il taglio dell’acqua. E viaggi infiniti con mezzi pubblici che, ammetto umilmente, mi logorano. E la stanchezza. E la sensazione di non stare facendo nulla. Anzi, che tutto quello che faccio alla fine non serve a niente. Perchè alla fine il mondo non lo cambi. Perchè alla fine il mondo forse non vuole essere cambiato. E la voglia a volte di “mollare tutto”. Ieri sera sono tornata dall’ennesimo monitoraggio in un villaggio sperduto del distretto. Sfinita. Il mio unico desiderio era un bagno e un letto. E lasciare il mondo al suo destino.
E poi come sempre, quando meno me lo aspetto, la bellezza di quello che vivo, di quello che ho la fortuna di vivere viene fuori con forza. 

Stamattina mi sono messa a rimettere a posto le foto scattate. Non tanto per spirito ludico. Quanto per preparare i rapporti per il lavoro. Ed è successa una cosa stranissima. Mi sono commossa. E non riuscivo a non sorridere. Pensando ai due giorni trascorsi. La fatica e le difficoltà incontrate non è che fossere sparite, ma c’era qualcosa di più forte che veniva fuori. 

L’obiettivo della visita oltre che monitoraggio era training di refreshment sulla produzione di batik rivolto a un gruppo di ragazze che abbiamo coinvolto in un programma di formazione professionale e empowerment economico. Avevamo chiamato una formatrice da Dar es Salaam che ha un negozio di produzione di diversi aritcoli con la tecninca del batik per spiegare nuove tecniche di produzione alle ragazze. Le ragazze sono già capaci di realizzare tessuti in batik e producono articoli che poi rivendono nel villaggio. Il nostro obiettivo è quello di migliorare la qualità dei loro prodotti per pensare magari di allargare il mercato delle vendite e migliorare la loro situazione. Ma non è tutto cosi scontato. A volte hai l’impressione di pensare e ragionare con tempi, obiettivi, e finalità che sono solo tuoi. A volte capisci che quello che vorresti realizzare, quello che tu ritieni importante e giusto, magari non è quello che sognano altre persone. E devi fare un passo indietro. Devi accettare la diversità. Che non vuol dire gettare la spugna su tutta la linea, ma vuol dire essere disposto a rimodulare i tuoi standard. È difficile. è difficile concretamente modifiare attività e risultati soprattutto quando si parla di progetti definiti in anticipo. È difficile in generale accettare che le cose non vadano come avevi pensato tu. È difficile imparare a seguire altri tempi e modi.

E poi c’è la fatica quotidiana di essere straniera. Di continuare a non capire quello che la gente dice intorno a te e quella di non riuscire a farsi capire. Quella di provare ogni minuto sulla tua pelle quanto fa male il razzismo e una diversità che ti viene ricordata ogni istante. La fatica del non essere chiamata mai per nome ma solo “muzungo” “bianca”. La fatica e l’amarezza del rischiare di essere fraintesi. Del passare per l’ennesimo bianco che viene per fare foto ricordo, senza riuscire a spiegare che quelle foto, quelle registrazioni che tu fai servono per ottenere finanziamenti e sostegno alle attività. La fatica del trovarsi in situazioni in cui tu ridi e ti accorgi che non avresti dovuto farlo, o peggio, rimani serio mentre intorno a te le persone scoppiano a ridere.

Eppure. Eppure. Eppure sono qui. E provo a starci. Con tutti i miei limiti. E imparo tanto. Imparo un senso della solidarietà che non conoscevo. Ho visto le ragazze lavorare insieme con un disinteresse che difficilmente vedo in Italia. Tutte insieme tagliare, cucire, legare insieme i tessuti per poi immergerli nelle bacinelle dei diversi colori. Senza distinzione del “mio” e “tuo”. Ogni ragazza imparava dalla formatrice una diversa tecnica di colorazione o intreccio del tessuto e poi la insegnava alle altre. E nello stesso tempo tutte a darsi una mano a tenere i rispettivi bambini che le mamme si portano dietro in tutto quello che fanno. Mentre una ragazza doveva lavare una tela, lasciava il bimbo a un’amica per poi riprenderlo dopo un po’ di tempo e darsi il cambio. È vero. A volte la confusione sale e sembra che non si concluda niente. Ma non è vero. Piano piano il lavoro procede. Le tele sono state tagliate, intrecciate, colorate, lavate e stese al sole tutte e quante. E alla fine ogni ragazza è tornata a casa con le tele finite e quelle da finire, per produrre articoli che poi visioneremo alla prossima visita.

La formatrice ha messo a lavorare anche me, per parcondicio. E cosi tra un controllo dei nomi e un aggiornamento dei data base mi sono messa pure a rifinire i tessuti che poi andavano tinti. Seduta sul prato insieme alle ragazze. E quando mi sono messa a fare delle smorfie ai piccoli stanchi per il lungo stare fermi , e i piccoli hanno riso, hanno sorriso anche le mamme.

L’ultimo giorno, c’è stato un momento in cui stavo davvero per mollare. Ero andata con alcune ragazze a visionare alcuni strumenti di lavoro che andavano fotografati per catalogazione. Loro chiacchieravano e io non riuscivo a capire nulla di quanto dicevano. Ho capito che se ne erano rese conte, e un po’ ridevano della cosa. Mi sentivo una stupida. Cosi fuori posto. Con loro, nel villaggio. Mi sentivo che forse avrei fatto molto meglio a stare a casa mia forse. Abbiamo fatto le foto. Io ho detto “grazie “alla ragazza che era con me e volevo sprofondare. E lei ha sorriso timida. Siamo uscite dalla stanza e proprio in quel momento per strada passava suo marito. Me l’ha presentato subito. Si vedeva che ci teneva. Mi ha chiesto di far loro una foto. Era raggiante. Io ho fatto le foto, gliele ho mostrate, ho stretto la mano al marito sorridendo. E poi è successa un’atra cosa strana. Lei mi ha preso per mano. Cosi semplicemente. Siamo tornate dalle altre ragazze cosi. Io e lei per mano. Lei che ha 20 anni, un marito e una bambina di qualche mese. Lei che lavora da diversi anni, che ha le mani segnate dal lavoro come una donna italiana di 50 anni ma ha il sorriso di una bambina. A fare il percorso inverso per il villaggio, tornando dalle altre ragazze, mano nella mano con lei, mi sono sentita cosi “forte”. Riuscivo a guardare la gente intorno a me negli occhi. Le ho chiesto il nome della sua piccolina che si portava sulla schiena. In swahili finalmente. E lei mi ha risposto sorridendo di nuovo.
Magari per lei non ha significato molto. Magari oggi si è già scordata di me. Ma per me quel momento è stato bellissimo. 

Forse sembra paradossale. Ma questa mattina non sento la fatica. Guardo le foto e penso che alla fine, in un modo o nell’altro, in quei momenti sono stata parte anch’io di quelle giornate. E penso che se le ragazze si ricorderanno e riusciranno ad usare anche solo alcune delle nuove tecniche insegnate durante la formazione sarà già un risultato importantissimo e quello che facciamo non è inutile. Sono tornata a casa con un batik anch’io, era una delle prime prove fatte e doveva essere ancora migliorato. ma a me sembra bellissimo.