martedì 28 dicembre 2021

Ode alla magia - che per fortuna non vive solo nelle favole


La magia ha sempre avuto una parte importantissima nella mia vita. Un privilegio che considero enorme. Sono cresciuta immersa nella magia, sotto forma di fiabe della buona notte (e di tanti altri momenti della giornata), racconti, favole.. assimilate sotto ogni possibile forma. Lette, raccontate, inventate apposta per me da parenti piú o meno fantasiosi e tutti con un proprio tratto narrativo, e in particolare da una nonna a cui devo come eredità la verve creativa. Ascoltate sul giradischi di una prozia all’ora del the pomeridiano, o in auto in audiocassetta mentre andavo alla lezione di nuoto. E infine inventate e scritte da me stessa quando sono diventata un po’ piú grande. Racconti gioiosi e tristissimi, racconti che restano in sospeso, con una morale o no, ma dove c’era sempre fortissima la presenza della magia. Magia come creazione, incanto, come qualcosa che porta la vita un po’oltre la comprensione logica, qualcosa che ti sorpassa.

Eppure, nello stesso tempo, è come se mi/ci fosse stato insegnato che dalla magia ci si debba sempre un po’ guardare. Che la magia appunto vada bene (solo) per i bambini. Un vezzo da relegare all’infanzia, ad uno spazio a parte rispetto alla vita “vera”, adulta. Come se crescendo bisognasse mettere da parte lo stupore, e il diventare adulti comportasse naturalmente il lasciare andare quella parte piú irrazionale, magica, “straordinaria” della vita e di noi stessi.

Il mio ultimo viaggio in Tailandia mi ha ricordato, di nuovo, come la magia possa e sia parte naturale e fondamentale del nostro quotidiano, della nostra vita – non importa quanti sforzi facciamo per dimenticarlo. E di quanto questo renda la nostra vita molto piu piena, ricca, viva.

A Cheow Lan Lake, ho visto, ho sentito quella magia sulla mia pelle. Mentre attraversavo il lago a bordo della nostra barchetta, era come ascoltare, ritrovarmi di nuovo in una delle mia favole da bambina, ma esserci davvero dentro. Era come se la magia uscisse dai libri di favole e prendesse forma nella realtà, rendendo animato, vivo lo spazio nel quale mi trovavo. Facendo quello che fa la magia. Dando un tocco, una sfumatura, una sensazione che qualcosa di piccolo ma meravigliosamente potente stia colorando la tua vita. Che mille sumature, scintille arricchiscano il tuo presente.

Il lago di Cheow Lan è una piccola “perla” nel parco nazionale di Khao Sok, una spazio incantato fatto di foreste, montagne color smeraldo, una flora e una fauna incredibile, fiumi, rocce, grotte. In realtà si tratta di un lago artificiale, nato in seguito alla costruzione della diga di Ratchaprapa Dam nel 1982. E’ la diga che ha permesso la nascita di questo spazio unico, in cui l’acqua ha sommerso una parte della foresta circostante, lasciando emergere dall’acqua color smeraldo le rocce calcaree ricoperte di vegetazione per centinaia di metri. Come cavalieri solitari che sembrano brandire le loro spade e scudi contro nemici immaginari, pronti a difendere principesse o castelli altrettanto immaginari.

Avevo visto le foto del lago e me ne ero innamorata. Ma non mi aspettavo l’effetto dell’essere fisicamente li.  Quando la barca ha preso il largo e ci siamo ritrovati in mezzo al lago, è come se  mondo intorno si sia trasformato, ammutolito. I rumori, le voci degli altri viaggiatori messi a tacere, o ovattati, distanti. Ero li, e non ero piu lí, come trasportata in un altro luogo, fuori dal tempo e dallo spazio. Una sorta di Lago di Morgana del ciclo di arturiana memoria. Piu volte mi sono ritrovata a pensare che non mi avrebbe stupito vedere emergere dall’acqua la spada Excalibur, o lo stesso Merlino, Morgana, o qualche cavaliere perdutosi durante la sua personale ricerca del Grahal. Puo fare sorridere tutto questo, immagino. Pazienza. Io custodisco come un dono prezioso la bellezza di un luogo incantato, davanti a cui ritrovarsi, come in un incantesimo, a restare in silenzio, ad abbassare la voce, a guardare quello che hai intorno, sentire il mistero, potente, sfuggente, ma mai feroce o pericoloso. Solo, piú grande di te.

Mentre proseguivamo nella nostra traversata, ai nostri lati, il rapido e maestoso susseguirsi delle montagne dalle pareti ora ricoperte di vegetazione, ora ripide ed erose dal vento, dagli anni, dalla pioggia e dal sole. Grotte che si aprivano sull’acqua evocanti il mistero di avventure magiche – almeno alla mia fervidissima immaginazione. Elefanti che comparivano tra le fronde degli alberi sui pendii delle montagne intorno al lago, pesci volanti dalle squame brillanti, uccelli dai colori vividissimi, il vociare dei compagni di viaggio sostituito da versi e suoni della natura, l’immensità del cielo, l’imponenza delle rocce, lo scintillio del sole sull’acqua alternati da momenti di livido cupore quando le nuvole lo coprivano, in lontananza una sottile nebbiolina provocata dall’umidità. Un brivido nel sentire la pressione delle onde sulla nostra barchetta, quando si avvicinava troppo alle rocce.

Cosa si nasconde in quelle grotte? Cosa si nasconde tra quegli alberi? Tra quelle ombre odorose? Una di quelle grotte l’ho davvero visitata. Umidità, pipistrelli, ragni, stalattiti. Ma oltre a quello, e piú importante, la sensazione che il vero mistero nascosto, la vera risposta alla domanda “chissa cosa si nasconde li dentro!?”, non sia qualcosa da trovare, a cui dare una risposta certa. Ma proprio il lasciare la domanda aperta. “Accontentarsi” di una percezione, un’emozione a cui non sapiamo dare un nome. Non è cosi che ci lasciano un po’ le fiabe?

Tornando a casa, quel giorno, in silenzio e goffa nel rimettere i piedi sulla terra ferma, mi sono portata dentro lo sguardo beffardo misterioso e ammaliante di quella natura.

Ho trovato ancora piu divertente pensare che per una volta, proprio il lavoro dell’uomo, la sua voglia/bisogno di sottomettere la natura ai suoi fini, abbia permesso proprio alla magia di trovare spazio. Dando vita a un luogo da incantesimo. Un luovo dove tutto è possibile, dove la mente pu
ó creare, immaginare, oltre a quello che vediamo. Dove ci puó essere spazio per gnomi e folletti e principesse e rospi che diventano principi. Declinati in qualunque forma a seconda della cultura che li partorisce. Ció
che conta è la possibilità lasciata all’immaginazione di prendere forma.

Ovviamente, vorrei che molti potessero vedere e godere di questo posto incantato allo stesso modo di come ho fatto io. Ma non c’è bisogno di venire a Cheow Lan Lake per trovare la magia. La magia credo nasca ogni volta in cui ci permettiano di ricordarci che la vita non è solo lavoro e obbligi e routine e orari da rispettare, ma che c’è sempre qualcosa che ci sfugge, qualcosa che puo farci vedere e immaginare quello che non c’è. A 30 anni, come a 10, 40, 60. Abbiamo sempre questa possibilità. Lasciamole la porta aperta.

 


domenica 5 settembre 2021

Ayutthaya, La rivincita del tempo

Ho sentito parlare per la prima volta di Ayutthaya durante il mio primo soggiorno a Bangkok nel 2017, quando, avendo un weekend libero e dovendo trovare qualcosa da fare, alcuni colleghi avevano parlato di questo “sito storico da visitare assolutamente”. La descrizione era un po’ fumosa, ed io ero rimasta, confesso, un po’ scettica. Mi era sembrata una gita per turisti “alle prime armi”, desiderosi di tornate a casa con foto pittoresche e incredibili aneddoti su vestigia del passato raccolte in una specie di parco dei divertimenti archelogico. Forse, non volevo semplicemente ammettere di non sapere nulla a proposito 😉

All’epoca, avevo preferito sfruttare il tempo per immergermi nella vita densa, e ben piú caotica della città, io che non amo il caos delle metropoli, ma che sono sempre molto curiosa di scoprire la vita delle persone. Non me ne pento, anche grazie alla presenza della mia straordinaria guida in quell’occasione, un collega thailandese che mi aveva aiutato davvero ad entrare nella storia della città.

Tornata in Thailandia, ho deciso di dare una chance ad Ayutthaya, rendendomi appunto conto di non saperne nulla, come quasi nullla sapevo (e tuttora so) della storia culturale, sociale, politica di questa regione - che è difficile racchiudere nei confini nazionali attuali. Quanti pregiudizi, e quanta superbia.

Sono rimasta incantata. In quello che ai miei occhi è apparso come il giardino di un paradiso perduto, un paradiso in rovina, dove i tratti dell’antica bellezza sono allo stesso tempo cosi vividi e cosi sfumati in un contrasto quasi doloroso. Camminando tra quelle che erano le strade di una cittadella imperiale, e tra le stanze di palazzi e stupe (templi), sono rimasta incantata e persa davanti a quelle incisioni, a quelle statue, a quella bellezza imponente e allo stesso tempo delicata e accuratissima. Un labirinto accessibile pensato per rappresentare il culmine della potenza umana, per sostenere e corroborare il potere di una regno, dargli una degna “dimora” fisica. Con il “divino” chiamato a testimone, nelle vesti di centinaia di buddha di tutte le taglie e posizioni, protettori e guardiani di quel potere. Forse, anche con l’implicita fiducia che quel sostegno fosse un dato assodato. O forse sperando che proprio nel dargli una dimensione fisica, quel potere fosse davvero reale, destinato a durare in eterno.

Per un attimo, mi sono venute alla mente le lezioni del liceo sull’ubris greca. L’eccesso di superbia umana, il volere andare troppo oltre, oltre gli stessi dei. E lo so che qui siamo in un contesto filosofico completamente diverso, ma la mente gioca sempre strani scherzi.

La bellezza dell’arte umana, e nello stesso tempo, la sua fragilità, il suo essere effimera. Perchè proprio quando vuoi dare una forma fisica (e piú forte) ai tuoi sogni, quel sogno comincia a sgretolarsi.

I sorrisi placidi e beffardi dei Buddha, su corpi (i loro) ormai in disfacimento, scheggiati, sfregiati, mi hanno suggerito proprio quello. Per la prima volta in vita mia, degna erede di un popolo abituato a vivere nell’ombra di antiche glorie, ho realizzato come la bellezza del passato, per quanto o forse proprio in virtú della forza che testimonia, possa essere estremamente triste. Testimone di uno splendore che non c’è piú, e della caducità della vita, di sforzi vani contro qualcosa di ineluttabile.

Mentre camminavo per i vialetti e l’immenso parco, immersa nel silenzio del luogo, ho provato una grande malinconia, ma anche estrema pace, riposo, abbandono. Avrei potuto restare cosi per ore, come dentro una magia che non so spiegare. Perchè questo “risveglio” non ha portato solo tristezza.

Quel regno è passato. Che cosa è rimasto dello splendore della città? Non certo príncipi o regine. Resta il tempo. Il tempo che erode e che lascia il suo marchio sulle cose, le persone, le costruzioni. Restano gli alberi, il sole, la pioggia. La dirompenza di una natura lussureggiante che tutto avvolge, e che ricama le rovine dei palazzi, le teste dei buddha scalfite, le ingloba in un’opera d’arte ancora piu bella e completa. E quesgli sguardi sfuggenti e quei sorrisi beffardi ridotti a metà sembravamo dirmi proprio quello. Il potere, la forza, anche la divinità, non la si puó imbrigliare (solo) in corpi di pietra e marmo, per quanto meravigliosi. L’arte come la vita è un guizzo che vibra e scivola via, soffia e prende forma in quello che facciamo, ma non resta mai ferma, immobile. E ci invita a seguirla, a fare altrettanto.

Ayutthaya è stata una sorta di lezione di vita, come l’Asia continua a esserlo per me. Il senso di fragilità e di inferiorità, ma anche la gratitudine per questa “scoperta”. La nostra piccolezza, ma anche la bellezza che possiamo creare e lasciare, se accettiamo di non esserne padroni o dominatori. Quel sorriso ineffabile, beffardo e dolcissimo mi accompagna, e mi invita a prendere tutto, me inclusa, con piu leggerezza, e a ricordarmi la complessa semplicità della vera opera d’arte, la vita, qui e ora.


PS. per informazioni piú dettagliate sul sito di Ayutthaya (e sul perchè valga la pena visitarlo, oltre ai miei sproloqui), si puó consultare per esempio: https://whc.unesco.org/en/list/576/

sabato 31 luglio 2021

Non tutto il male viene per nuocere

 Ho « incontrato» Bangkok per la prima volta nel 2017. Mai città mi era sembrata piú sfavillante, scintillante, modernissima, velocissima, città di vetro e grattacieli. Arrivavo dritta dagli altopiani della Papua Nuova Guinea e il confronto era stato choccante. Ero rimasta rapita. Grazie ad un amico tailandese avevo intravisto segni di un’altra Bangkok, piu lenta, tradizionale, fatta di incensi, di legno, di case basse, di catapecchie, di un passato che sembrava non volersi far relegare in un angolo, ma non avevo avuto modo di approfondire. Solo qualche giorno di permanenza. Mi era rimasta nel cuore la sensazione di una città incantata, che avrei voluto conoscere meglio.

Siamo tornati a Bangkok a maggio 2021. All’arrivo, un gruppo sparuto di passeggeri occidentali dai profili alquanto peculiari. Oltre a noi, alcuni uomini in tenuta kaki, dal possibile profilo militare, o mariti di donne tailandesi, pochi altri civili probabilmente impiegati per altre ONG ; il resto dei viaggiatori tailandesi. Nessun « turista », non la folla di vacanzieri australiani o europei in infradito e corone di fiori, pochi gli uomini d’affari. Un incontro totalemente diverso dal primo. Avvenuto attraverso una fitta rete di mascherine, vetri, passaggi obbligati dentro ad un areoporto blindato, un sistema efficientissimo di controlli che ci ha accompagnato dalla discesa dall’areo, attraverso le formalità mediche e amministrative, fino alla macchina dai vetri oscurati che ci ha portato dritti in uno hotel approvati in cui passare i 12 giorni di quarantena. Non ho neanche fatto in tempo ad annusare l’aria.

Le due settimane di quarantena sono state una tortura, per me che necessito di aria e movimento. Ma soprattutto per la mia “fame” di immergermi nella vita della citta. Uscita, ho trovato un città molto diversa dal mio ricordo. Chiuso tutto, musei, palazzi, bar, ristoranti, karaoke, centri per massaggi e sale da the. Era come se la città fosse il fantasma di se stessa, o di quella che avevo intravisto nel 2017. Era come se non ci fosse piú posto per la Bangkok di qualche anno fa. Una Bangkok in cui potevano esistere posti come un ristorante che serve solo « sea food and champagne”. Oggi naturalmente chiuso.

Peró forse questo permette ad un’altra Bangkok di emergere, piu autentica, piu antica, o forse semplicemente piu coriacea e semplice. Fatta dei « suoi » abitanti che continuano a fare quello che hanno sempre fatto: condurre una vita alla giornata, fatta di piccoli commerci, di vendita al dettaglio, di carretti del gelato che si annunciano con un campanello, di cibo da strada, perche la gente qui vive e sopravvive cosi. Forse semplicemente questa Bangkok, messa in disparte per lungo tempo, si riprende il suo spazio, il suo palcoscenico. La citta si adatta, si adatta alle restrizioni, al coprifuoco (incredibile per una città che davvero viveva 24 ore su 24), a una vita che sicuramente le sta stretta, non le si conface, ma dove c’è sempre il modo di fare emergere qualcosa di viscerale, di proprio, che nessuna pandemia riuscirà mai a fermare. Un esempio. I monaci buddisti portano la mascherina. Ma restano in strada, con le loro lunghe tuniche arancioni, ricevendo ghirlande di fiori che continuano ad essere create con maestria da vecchietti con la mascherina, e un po' di frutta che continua a crescere succulenta. Non so se tra le preghiere fatte dai devoti, oggi si sia aggiunta quella per la fine della pandemia.

Hanno chiuso i parchi, e allora per poter continuare a camminare e non chiudermi in casa, esaurita l’esplorazione delle strade del mio vicinato (pericolossime per il traffico – quello non cala- e inquinatissime), mi sono messa a camminare sempre un po' piu lontano, per scoprire angoli sempre nuovi della città. Cammino lungo i canali di questa Venezia dell’Asia, dove, come a Venezia, l’odore dell’acqua stagnante si mescola a quello del sapone da bucato dei panni messi a stendere, con in piú l’aggiunta del profumo di spezzatini di carne dalla dubbia origine e verdure al cocco.

Cammino per le strade trafficate, un rischio che mi permette di scoprire sempre nuove sfumature della città e dei suoi abitanti. Guardo le donne e gli uomini cucinare in strada, tagliare il cocco, preparare gli spiedini di pesce messi a cuocere sulla brace o friggere nell’olio caldo mentre ci sono 40 gradi e un’umidità al 80%, infilo spudorata la testa dentro le bottegucce e i magazzini. Gli odori si mescolano. L’odore del pesce affumicato si mescola a quello del sangue della carne di maiale, a quello delle crèpes calde, dei dolcetti al cocco e dei frangipane. I colori pure, il verde scintillante della vegetazione, il giallo intenso delle collane di fiori per le offerte votive, al grigio minaccioso di questo cielo da stagione delle piogge.  Mi sento un po' a casa. Mi torno a sentire « viva » perchè mi sembra di ritrovare la mia umanità dopo mesi di « telelavoro », dove mi sono sentita piu simile ad una macchina. Mi specchio finalmente negli occhi di persone come me, e non in un computer.

Forse è vero che mi sono persa la Bangkok degli « anni ruggenti ». Ma forse non è cosi male. C’è una poesia antica che forse era andata un po’ perduta e che adesso è piú visibile. Mi fermo davanti a scene che sembrano venire da altre epoche. Una signora che lava l’asfalto davanti alla porta della sua casa/tugurio con il mocho insaponato. Covate di gattini di qualche settimana che scorrazzano per le strade. Giovani in doppio petto o tailleurs d’ufficio che mentre vanno (andavano – prima delle ultime restrizioni) in ufficio si fermano ad accendere gli incensi nei tempietti dei cortili delle case, signore che danno da mangiare agli scoiattoli accompagnando il gesto con una preghiera salmodiata. La ressa davanti alle biciclette che espongono i biglietti delle lotterie.

Ho addirittura incontrato un indovino seduto in strada e pronto a leggermi le carte. Gli indovini di Terzani. Forse se lui lo sapesse, gli scapperebbe un sorriso compiaciuto.

Allora forse l’unica cosa che davvero mi dispiace è l’impressione di poter solo « assaggiare » questa città e la sua storia. Mi aggrappo a questo assaggio, aspettando le prossime portate.

 


lunedì 26 luglio 2021

1..2..3.. Il viaggio, e i racconti, riprendono

 

Ho deciso di tornare a scrivere su questo blog, che è stato per tanto tempo un amico, un’estensione di me, un contatto con casa quando a casa non ero, un modo per unire mondi geograficamente distanti, aiutandomi a ritrovarmi e ri-scoprirmi. Tornare a raccontare di viaggi, di incontri, ma soprattutto di come quei viaggi e quegli incontri arrichiscono, cambiano, fanno crescere.  Tornare a condividere tutto questo, perchè credo sempre piu fermamente che quei viaggi e quegli incontri non siano, e non debbano essere mai SOLO miei, ma possano arricchire, divertire, « far ritrovare » chi li legge con me.

Riprendo in mano la penna dopo anni in cui l’avevo messa da parte, per scelta piu o meno autoimposta, per dare priorità al lavoro « ufficiale », e forse in fondo in fondo per la convinzione che questo blog, questo scrivere fosse una cosa di poco conto, che non servisse a nessuno, che il suo esserci o non esserci non avrebbe fatto alcuna differenza, per gli altri, per me. Non posso parlare per gli altri, ma personalmente mi rendo conto che cosi ho finito per perdere una parte di me, di cui ho sentito e sento oggi una mancanza infinita.

Torno a scrivere come atto di difesa, ma anche di « responsabilità » verso me stessa. Impugno la penna come una sorta di arma personale, per citare Cirano. Riportare alla luce il mio sentire, ribadire a me stessa prima di tutto cio’ che sono, il mio modo di intendere e concepire la vita, la mia « umanita ». E lo faccio proprio in un momento in cui sembra che questa modalità, questo sentire non siano davvero possibili. Un periodo in cui il viaggiare è stato limitato a motivi di sola necessità, il cui l’incontro con altre persone, lo scambio, da occasione di arricchimento, di crescita, di vita, è diventato o viene associato a fonte di pericolo, contagio. Non c’è polemica nelle mie parole, viviamo una situazione difficile, ma il rischio è quello di perderci. Mi ero persa, voglio ritrovarmi.

Vengo da due anni in cui ogni tipo di spostamento è stato particolarmente difficile, se non impossibile.  Purtroppo, la riduzione dei viaggi « fisici » » si è portata dietro anche la riduzione di tutto cio’ che quel viaggio comportava. Ogni interazione è stata limitata al minimo, ridotta quasi solo alla dimensione virtule. Svanita l’attesa dell’incontro, la scoperta dell’altro, la ricchezza dello scambio che viene da una mano stretta, da uno sguardo condiviso, da un odore che entra nel naso.. Persa la relazione che costruisci piano piano con cio’ con cui entri in contatto, persona, oggetto, luogo, che entra nel tuo spazio vitale e finisce per cambiarti.

Questo vuoto mi ha annichilito.

Ed è proprio perchè voglio salvare queste componenti della mia vita, voglio ricordarmi a me, e magari a chi sta facendo la mia stessa fatica, che la vita è anche e soprattutto questo, ho deciso di tornare a scrivere. Un atto di rivolta contro un’abitudine che ci riduce all’inedia.

All’inizio non sarà facile. È vero, rispetto al passato, viaggio, viaggiamo tutti meno. Ed è vero che  forse una delle molle che mi ha fatto decidere di tornare a scrivermi, , è che « fisicmente » sono ripartita. Una nuova destinazione, la Tailandia, l’Asia, un mondo incredibilmente sfaccettato che si nasconde e chiede attenzione infinita per farsi scoprire. Questo forse ha aiutato a scuotermi dal torpore in cui ero finita, motivandomi. Ma non credo basti solo tornare a prendere un aereo per definire la nostra attitudine. Credo che la ridotta mobilià fisica, le frontiere chiuse, o peggio la fatica infinita che si fa per viaggiare oggi, possano diventare una pericolosa scusa per chiudere anche il cuore. Credo che abbiamo tutti rischiato questo in questi ultimi mesi/ anni. Non voglio piú questo. Dovro’ riabituare la mano, come il cuore.

Il viaggio non è mai stato per me semplicemente aggiungere una bandierina in piú su una mappa o un timbro sul passaporto. Il viaggo per me presupponeva e presuppone l’apertura, l’incontro con le persone, con e nei loro luoghi, cultura, colori, il cambiamento che quell’incontro suscita in me. Ho iniziato questo blog anche su questa premessa. Viaggi magnifici possono iniziare e svilupparsi semplicemente se decidiamo di tenere aperti occhi e cuore a quello che ci circonda, pronti a farlo entrare nelle nostre vite. L’ « esotismo » sta in tutto quello che non ci appartiene tradizionalmente, e che puo stupirci, cambiarci, arricchirci. Ho visto e vedo ancora oggi (forse anche di piú) tante persone viaggiare, e continuare a farlo restando impermeabili a tutto quello che li circonda, dietro barriere di protezione che forse aiutano, ma rendono la vita cosi piú povera.

Credo che la grande fatica di questi ultimi anni, almeno a titolo personale, sia stato il lasciare che l’abitudine, il lavoro, e poi la pandemia, mi facessero progressivamente chiudere gi occhi e il cuore alla meraviglia di quello che continua a circondarmi, ogni giorno.

La mia risposta all’ incertezza e alla tristezza di questo momento difficile è scegliere di tornare a aprirsi. Trasformare la difficoltà materiale dei viaggi attuali, i controlli centuplicati, i test, le misure di separazione, la diffidenza e la paura, non in un freno ma in una sorta di allerta che mi ricordi quanto quel « viaggio » sia prezioso e di valore, qualcosa mai scontato, qualcosa da guadagarsi perchè la ricompensa sarà grande. Qui a Bangkok siamo attualmente in lockdown, chiusi nel confort dei nostri appartamenti che possono diventare prigioni. Eppure il mio cuore è palpitante, « allerta » e aperto alla vita, come mai nell’ultimo periodo, pronto a ogni occasione di incontro e scoperta.

Per me e per chiunque vorrà accompagnarmi, ancora.