lunedì 30 aprile 2012

EDUCAZIONE PER TUTTI



Uno dei progetti di cui mi “occupo” qui in Madagacar è un progetto di aiuto alimentare fornito a diversi centri scolastici ed educativi (attraverso il sostegno alle mense scolastiche). In collaborazione con molti di questi centri si è aperto anche un progetto di alfabetizzazione e di lotta all’abbandono scolastico.  Una parte del lavoro, quella che riguarda scartoffie e contatti si svolge chiaramente in ufficio. Ma c’è una bella fetta di lavoro, che è quella che preferisco, che invece si svolge “sul campo”.  È quella parte di lavoro che mi porta a partire alla scoperta degli angoli nascosti di Tana con le mie colleghe malgasce per andare a visitare a sopresa i vari centri, per verificare se i viveri arrivano, se vengono ben gestiti e soprattutto ben distribuiti, se le attività scolastiche dichiarate vengono realizzate. Già solo in queste prime settimane mi è capitato di vedere di tutto, e non sempre in senso positivo. Spesso le attività scolastiche dichiarate non vengono messe in piedi, lo stockaggio dei viveri non rispetta le norme sanitarie minime (per imperizia o per mancanza degli strumenti necessari), e i viveri non vengono distribuiti come dovrebbero o nelle giuste quantità. Spesso mi sono ritrovata a visitare certi centri con certi locali annessi e domandarmi come sia possibile chiamarli “scuole”.  
La situazione scolastica in Madagascar è disastrosa. Un tasso di abbandono scolastico atissimo, soprattutto dopo la crisi del 2009 che ha spinto molti bambini (o le loro famiglie)a lasciare la scuola per cercare un lavoro. Molti ragazzini si ritrovano adesso semi alfabeti ma avendo già superato l’età per avere accesso alla scuola pubbblica primaria e sono quindi destinati a rimanere senza educazione per tutta la vita, e senza prospettive di migioramento. Sono nate molte scuole non statali che prendono in carico questi ragazzi, con corsi appositi pensati per preparli agli esami di stato o per dare loro una formazione professionale, ma c’è un bisogno costante di finanziamenti che non sempre si trovano. Ad aggravare la situazione ci si mette spesso l’inutile competizione che si scatena tra il sistema pubblico, geloso di finanziamenti e tassi di successo degli alunni, e quello parastatale. In tutto questo, lo stesso sistema pubblico è ormai paralizzato dalla protesta degli insegnanti che scioperano da mesi per il mancato pagamento degli stipendi. A fare le spese di tutto questo sono i bambini.
Quello che io vedo e sento girando per la città è solo una minima parte di una realtà più vasta e complessa. Eppure in un quadro che a volte mi fa davvero cadere le braccia c’è sempre qualcosa che riesce a stupirmi, c’è qualcosa che riesce a farmi sorridere e sperare: come quando vedo fare lezione anche dove non ci sono aule, semplicemente montando dei tendoni. O come quando vedo scritti alla lavagna i diversi modi in cui bisogna usare il sapone per lavarsi e pulirsi. O come quando i responsabili di alcuni centri professionali mi raccontano dell’apertura del nuovo corso di cucina là dove non c’è una cucina, orgogliosi del fatto di essere almeno riusciti a montare dei fornelli “a cielo aperto”. O come quando assisto alle riunioni degli alfabetizzatori che provano ad organizzarsi e discutere insieme dei loro problemi ( che a volte sono rappresentati dalla difficoltà di capire e spiegare una divisione..). Forse sono una grande idealista ma in questo mondo alla rovescia si riesce sempre a vedere un tentativo di costruire qualcosa là dove non c’è quasi niente. Non ho risposte, non penso assolutamente che la mia presenza riuscirà a risolavere tutti i malanni del Madagascar. Ma mi piace pensare di raccontravi un po’ di quello che vedo.

domenica 15 aprile 2012

TANDONAKA


14 aprile
Per oggi nessuna riflessione troppo impegnativa..solo qualche consiglio musicale direttamente dal Madagascar. Capisco i pregiudizi, soprattutto dopo i miei racconti sulla predilizione dei malgasci per basi musicali di dubbio gusto, ma vi assicuro che a Tana la scena musicale può riservare molte sorprese. Ieri sera un po’ per caso e con diverse perplessità  siamo finiti in un fumoso barettino dal nome esotico Piment Café famoso per le serate live. Già pronti sul palco, come da programma, i Mami Bastah.  Mami Bastah in realtà è il cantante, accompaganto dai suoi musicisti. Intorno a noi quasi nessun europeo, a parte uno sparuto e un po’ intimorito gruppetto di francesi. Invece, tavolate di malgasci con tanta voglia di far festa e cantare.
Si è aperto il concerto, al grido di “Tandonaka!”. Tandonaka è un genere musicale tradizionale malgascio, tipico della regione di Antsirabé che i Mami Bastah hanno rispolverato e portano in giro per il paese. Sonorità africane, parole malgasce, ma anche armonica e tastiere e bassi e batteria. Una bellissima capacità di tenere banco, di intrattenere e farsi intrattenere dal pubblico. Testi che divertono ma che tra le righe infilano anche commenti taglienti sulla situazione politica malgascia. Il pubblico partecipa, interloquisce, interrompe abitualmente i musicisti. Più che un concerto sembrava una chiacchierata da amici, e tra gli amici c’eravamo finalmente anche noi.
Mentre ascoltavo, o forse dovrei dire partecipavo, mi sono ritrovata come spesso mi accade qui, a non sapere dove sono, smarrita tra atmosfere e suoni che si mescolano, che mi rimandano a paesi e luoghi a migliaia di km l’uno dall’altro. L’idea di poter essere benissimo in una qualche birreria emiliana, o in qualche localino nantese..e poi dopo un attimo una frase, un gesto, un sorriso che mi ricordano che sono davvero qui in Madagascar, e che non potrei essere in nessun altro luogo, proprio qui, anche se dalla parte opposta dell’universo che ho sempre conosciuto. È strano. E bellissimo. C’è qualcosa in più. Durante la serata mi sono ritrovata ancora una volta a considerare come sia difficle vedere i mille volti di una realtà. Il Madagascar, ma non solo. Come sia facile a volte ridurre, semplificare quelle realtà a dei clichès. Venendo nel “Terzo Mondo” si è portati a pensare subito e solo alla povertà, alla miseria, al bisogno del nostro aiuto. Tutto questo esiste. Ma esiste anche qui tutto un mondo fatto di animata vita culturale, possibilità economiche più elevate, concerti, boutiques per un pubblico ristrettissimo . . . un mondo oltretutto che va avanti benissimo anche senza di me. Una serata è niente per farsi un’idea di questo paese. Antananarivo non rappresenta tutto il Madagascar, ma ne fa comunque parte. Migliaia di realtà contraddittorie e stridenti è vero, ma che esistono e coesistono. E non ho voglia di aprire gli occhi solo su alcune.
Alla fine, naturalmente abbiamo comprato anche un cd dei Mami Bastah, contrattando, qui come al mercato, sul prezzo. E in ogni caso imparare e tradurre i testi sarà un buon esercizio di malgascio.
Se ne avete voglia cercateli in internet, i Mami Bastah. Magari non vi piaceranno. Magari invece riesco a trasmettervi un po’ dell’atmosfera del Piment Café. Uno fra i mille diversi imput che ricevo stando qui.

mercoledì 11 aprile 2012

Venerdi Santo e affini


8 aprile

Settimana santa. Espressione che rende abbastanza bene i miei ultimi giorni qui. Ho assistito a tutti i riti che la liturgia cristiana prevede per questa settimana, paradossalmente più di quanto abbia mai fatto in Italia dove, tra sessione d’esami straordianaria e traversate in treno-aereo-macchina mi ritrovavo ad essere a casa a momenti solo la sera prima di Pasqua. Convinzione personale certo, ma anche perchè se sono qui è per vivere con questa comunità, per quello che è possibile, con i suoi rtimi, la sua socialità. Ed è vero che qui la dimensione della parteciazione popolare alla messa è qualcosa che in Italia abbiamo scordato da decenni. La partecipazione stessa acquista una valenza sociale che da noi non dà neanche l’aperitivo nel bar più chic della città. E mi sembrava giusto provare ad esserci anch’io in tutto questo, superando l’imbarazzo di entrare in chiesa accompagata da mille occhi puntati addosso o le barriere linguistiche.
Confesso, non è stato tutto cosi facile come avrei pensato, non tutto cosi bello. Qualcosa oltre lo stereotipo esotico che a volte aleggia intorno all’idea di messa africana. Ho fatto fatica. Ho fatto fatca a reggere a celebrazioni di 4 ore, a sentire canti che possono durare 25 minuti l’uno (non è uno scherzo ) e che sono sempre accompaganti da immancabili tastiere che inseriscono obbligatoriamente basi stile disco music o mazurche emiliane, (considerate credo il meglio della tecnologia e della raffinatezza qui in Madagascar). Ho fatto fatica ad accettare rituali che secondo la liturgia italiana post concilio non hanno più valore, baci della croce, saluti lunghissimi, interminabili prediche intervallate da battute che non posso ancora capire e forse non capirò mai, 2-3-4 raccolte di offerte per la parrocchia-il prete-i chirichetti-l’associazione delle mamme.. Ho sentito la mancanza del silenzio occidentale, della riflessione, di un momento di raccoglimento personale e solitario. Ho sentito la mancanza forse delle atmosfere da venerdi santo di gucciniana memoria. Ho fatto fatica a trovare un senso in tutto questo. Ho fatto fatica a non perdere le mie convinzioni personali. Venerdi santo stavo per mollare e uscire dalla chiesa, lo confesso. Mi sentivo davvero fuori posto. Poi la notte di Pasqua sono tornata. E c’è stato un momento in cui mi sono commmossa. È stato durante il momento della pace, che qui in Madagascar viene fatto prendendosi tutti per mano e cantando e danzando con le mani unite e sollevate.  E anche i malgasci che mi guardano con diffidenza sono “costretti” a prendermi la mano. Io ho stretto forte la mano dei miei vicini e ho cercato di far sentire il mio essere qui. Forse è solo suggestione, ma in quel momento anche lo scetticismo è stato messo da parte. E sono passati in secondo piano anche le tastiere, le basi musicali anni 80. E nonostante la nostalgia di casa, che si fa più forte in questi momenti di festa, mi sono sentita a casa anche qui.
Una casa chiassosa, incoerente, che ride e canta pur non avendo niente, che non riesce a farsi le mie paranoie sul futuro e sul senso della vita perchè il presente è già troppo buio, una casa che continua a scuotermi e rivoltarmi come un calzino.
Buona Pasqua a tutti

martedì 3 aprile 2012

Taxi Be


Ogni paese, ogni città ha il suo mezzo di trasporto per eccellenza. La macchina, la metro, che in Francia cambia misteriosamente sesso, il taxi, la bicicletta, la gondola. Per il Madagascar è il taxi be. Furgoncini sul modello del Ducato o appena più grandi che vengono accessoriati con due incredibili file di poltroncine e scarrozzano in giro per il paese persone, galline, biciclette, pacchi. Ci sono taxi urbani per muoversi in città, ma anche quelli “extra urbani” (i famosi taxi brousse) che collegano con epiche traversate una parte all’altra del paese. Naturalmente ce ne sono di ogni colore, blu, rossi, gialli, bianchi. Il tratto comune è la quantità incredibile di passeggeri che riescono a caricare: oltre all’indicibile incastro dei seggiolini, tra le due file vengono all’occorenza inserite assi di legno per aumentare i posti disponibili, per non dimenticare la gente che resta appesa dentro solo per metà. Si entra dal portellone posteriore, quasi in corsa, su “accettazione” di una sorta di controllore che decide se lo spazio vitale è sufficiente o no. Una volta a bordo, durante il viaggio viene richiesto il prezzo del biglietto. Non mi capacito ancora del come ma tutto si regge su un sistema efficientissimo: il famoso controllore dell”ingresso dal retro” ad un certo momento comincia a chiedere il prezzo della corsa, 300 ariary. Da ogni parte del taxi cominciano ad arrivare soldi che vengono spinti verso il fondo del mezzo grazie ad un collaborativo passa mano. Non si capisce bene da dove vengano i soldi e quanti biglietti servano a coprire. La gente spesso ha pezzi più grossi e paga per 2, 3, 4 altri passeggeri indicandoli a dito. Con mio sommo stupore tutti pagano e tutti ricevono ancora più straordinariamente il proprio resto, sempre attraverso il passa mano. Sabato sono andata in taxi be per raggiungere il mercato di Analakely. Un viaggio incredibile. Tutti stipati come maialini, le ginocchia che si toccano, davanti, dientro, di fianco. La musica della radio a tutto volume e tutti i passeggeri che cantano. I taxi be sfrecciano per le strade di Tana schivando pedoni, biciclette, carretti, buoi, altri taxi be rivali. Confesso. Subito ero abbastanza rigida, no rigidissima, il contatto umano ravvicinato mi dava fastidio e strideva con le  convenzioni sociali a cui sono abituata. Mi chiedevo se sarei mai arrivata a destinazione. Credo di avere chiuso gli occhi in una o due occasioni. Piano piano mi sono lasciata andare, ho smesso anche di accorgermi che la gente mi sfiorava, no mi urtava anche senza troppo riguardo. Mi sono “goduta il viaggio”.  Al ritorno, durante il viaggio verso casa per radio hanno passato Bed of roses di Bon Jovi. L’ho cantata tutta.

lunedì 2 aprile 2012

Rientro a Tana


Lunedi sera sono rientrata a Antananarivo dopo circa tre settimane a Ambositra. E ho capito che l’impressione che mi ero fatta un mese fa era solo un centesimo di quello che ho colto in questi (sempre) pochi giorni, che sarà ancora un centesimo di quello che potrò mai cogliere.
Girando in macchina, in taxi be, a piedi sono sempre con il naso all’insù e gli occhi ben aperti per catturare tutto quello che posso di questa città, e resto stupita ogni istante. Tana centra ancora meno di tutto quello che ho visto finora del Madagascar con l’idea di Africa che avevo. Non è una città africana. É un mix incredibile di contaminazioni e culture e tradizioni diverse. È costruita tutta sui colli come Roma, è tutto un sali e scendi di stradine e scale. Le case hanno il tetto spiovente che mi ricordano cosi tanto certi villaggi inglesi o francesi, segno della colonizzazione che resiste alla storia. Passeggiando per la  città vecchia, che dall’altro domina il resto dell’insediamento, sembra di essere davvero di essere nel Vecchio Continente, con il palazzo della regina e quello del primo ministro fatti da architetti europei e chiesette protestanti e cattoliche come neanche in Irlanda, e cuffi d’erba e sentierini che sembrano presi dai borghi toscani. Ville protette da altissimi muri e filo spinato accanto a catapecchie. E da lassù guardi in basso e hai una vista incredibile. Vedi gli agglomerati di case sparsi sullle varie colline verdissime, e in mezzo le risaie dove vedi luccicare l’acqua. Vedi lo stadio e il lago Anoussi, proprio nel mezzo di uno dei quartieri più centrai di Tana, un lago a forma di cuore, con in mezzo una statua fatta sul modello della Statua della Libertà. Intorno camminamenti pedonale in mezzo al verde e parchi che ricordano certe immagini newyorkesi. Di fronte a te, lungo il dorso di altre colline, vedi le baraccopoli di Padre Pedro. Ci sono vedute, scorci che assomigliano alle campagne cinesi. Altri a pezzi dei nostri borghi medievali. Altri ad alcune foto di città azteche. Altri a villaggi del Nord Europa con le casette affiancate tutte dai diversi sgargianti colori.. Quando arrivi a Analakely, la zona del principale mercato della città, camminando in mezzo a  banchi e bancarelle invece ti ricordi che sei in Africa.. anche se poco dopo inzia il viale che ti conduce alla stazione dei treni appena restaurata che sembra La Gare d’Orsay.
È vero,  a volte ti gira la testa..la gente ti urta, le voci si mescolano, nessuno chiede permesso però davvero c’è tantissimo da imparare e conoscere, una storia politica, una cultura, un modo di vivere che ti costringe sempre a rimetterti in discussione, ti provoca, ti fa venire voglia di restare qui per scoprire qualcosa ogni giorno.