domenica 29 settembre 2013

TASUBA - Qualcosa che manca all'Europa



Bagamoyo non è famosa (si bè famosa forse è una parola grossa) solo per la tratta degli schiavi e per essere stata la prima cittadina cristianizzata di tutta l’Africa dell’est. Forse ancora meno persone sanno che Bagamoyo ospita anche un festival musicale che è considerato (cosi si dice) il più importante di tutta l’Africa dell’est. Tasuba. Un festival di musica, danza, giocoleria che vede arrivare ogni anno a settembre artisti non solo da tutta l’Africa orientale, ma anche dall’Europa, in particolare quella del Nord con qui Bagamoyo ha stretto nel corso degli anni importanti collaborazioni e partnersship, in campo culturale e non solo. Una settimana di spettacoli, concerti all’aperto, esibizioni di gruppi giovanili e locali nel corso della giornata e concerti di artisti di maggiore fama la sera. 

Ieri era la serata di chiusura. Io e la mia coinquilina, dopo avere miseramente disertato a tutta la settimana di bagordi, abbiamo deciso di andare. Siamo arrivate davanti alla sala in cui si teneva il concerto/spettacolo verso le 21h30. Una calca infinita e suoni di canti e tamburi e fischi di incitamente che venivano già da dentro. Serata a pagamento. Costo di ingresso 2000 scellini. A noi alle casse ne hanno chiesti 5000 perchè non tanzaniane. Vedi bianche. Ci hanno pure dato un biglietto di colore diverso, marrone invece del regolamentare blu. Mi sono sentita un po’ come marchiata da una moderna stella di david. Ma va bè. Siamo entrate a fatica nella sala da concerto, spintonando e facendoci largo con i gomiti alti. Dentro il deliro. Palazzetto pieno. Neanche alle finali di Euro Lega di basket. Attraverso un tortuoso giro siamo arrivate nel parterre proprio sotto il palco, e ci siamo sedute per terra, proprio in prima fila se si può dire cosi, in mezzo ai bambini urlanti. I 5000 scellini meglio spesi di questo mese. Sul palco un gruppo di ballerini, 5 donne e 3 uomini accompagnati da gruppo musicale con tamburi, chitarre, strumenti tradizionali e 3 o 4 cantanti che si alternavano. Ho il rimpianto di non sapere da che paese africano venissero. Però la lingua era swahili. Si stavano già esibendo quando siamo arrivate noi. Non hanno finito prima delle 22 e 45.  Credo 2 ore sul palco ininterrottamente. Due ore ininterrotte di musica e canti ora ritmati ora più raccolti ad accompagnare altrettante ore di balli, ora frenetici ora più contenuti. Un ritmo, una coordinazione, una carica pazzeschi. Costumi bellissimi. Corpi bellissimi. Quelli delle ragazze, morbidi e sinuosi, li intravedevi dai costumi mai scoperti o volgari. Quelli dei ragazzi, fasci di nervi e muscoli. Tutto il loro corpo era concentrato in un muoversi da cui non riesci a staccare gli occhi. Non so trovare parole. L’unica cosa che sentivo era “ecco, quello che l’Europa non sarà mai”. La gente gridava e fischiava (si credo di avere capito che qui il fischio vuol dire approvazione). Io sarei rimasta in silenzio per ore e ore a guardarli.

Dopo di loro per par condicio è stata la volta della Norvegia. Anche qui band musicale e gruppo di ballerini. Tutto un altro stile. Musiche che ricordano e balletti dalle movenze meccaniche in tutine di lattice. Ora, io non sono un’intenditrice di ballo, soprattutto moderno, e sicuramente c’è tutto uno studio filosofico dietro queste ricerche della danza postmoderna. Lungi da me mettere in dubbio la professionalità dei musicisti e i muscoli dei ballerini. Ma ragazzi. È come il ghiaccio dopo il fuoco. Singore mio, credo che il pubblico non capisse neanche bene di che si trattasse. Anche i norvegiesi hanno avuto i loro fischi di plauso. Quando alle ballerine si sollevava la gonna lasciando intravedere maliziosalmente la mutandina nera. Non sapevo se piangere per loro o ridere per la situazione. Con tutto il loro studio e la loro arte a me e alla mia coinquilina, che pure siamo europee, hanno comunicato cosi poco. Diciamo che siamo rimaste umilmente perplesse. 

Sempre molto umilmente dico Africa batte Europa 10 a 0. 

Poi è stata la volta dell’Etiopia: band musicale e gruppo di giocolieri giovanissimi. Contorsioniste che avranno avuto tra i 12 e 14 anni, giocolieri, ragazzi che si arrampicano su scale e saltellano su monocicli alti un metro e mezzo. E ancora musica e canti e suoni di chitarre moderne e tradizionali. E l’oroglio nazionale. E l’orgoglio di un continente che si conosce e si mescola.

E poi il gran finale: dal nord della Tanzania un gruppo di ballerini e suonatori di danze tradizionali. Ngoma ( i tamburi tradizionali in pelle di vacca o capra) enormi. Suonatori con il corpo decorato con pasta bianca e vestito con gonnellini di piume e il capo ornato. Tra i suonatori anche un uomo vestito con un costume rappresentante una delle maschere locali, una specie di animale fantastico.
Lo spettacolo si è aperto al suono degli ngoma, sul quale uno dei suonatori staccatosi dal gruppo (una sorta di narratore) ha cominciato a cantare o meglio reciatare un testo, come l’inzio di una storia o un racconto tradizionale. A fatica si è fatto silenzio nel palazzetto. Dai lati, due fila di ballerini hanno cominciato a ripondergli. Sempre in questo misto di canto e recitato. E piano piano, danzando, hanno cominciato ad entrare in scena. Due gruppi. Gli uomini da un lato, le donne dall’altro. Tutti in abiti tradizionali. Gli uomini con le penne d’uccello intrecciate in bellissimi copricapo. Le donne con il kanga e il capo coperto da un corto tessuto a trattenere i capelli. Un crescendo di tensione. E poi all’ennesimo colpo di ngoma è partito il vero ballo. Un’esplosione. Frenetica, velocissima. Ancora muscoli e bacini che roteano freneticamente. Gocce di sudore sulle schiene dei danzatori. E il canto grave e profondo dei ballerini, e le grida delle donne. E poi l’ingresso in scena di un’altra “maschera” tradizionale: un ballerino vestito con un enorme costume grigio a rappresentare non so quale mostro. Enorme. A ogni suo movimento si disperdeva da lui una nube densa di un qualche tipo di polvere profumata.  E ancora canti e balli, e voci e corpi che si muovono. In un modo che noi europei non riusciremo mai a imitare, perchè non lo riusciamo forse a capire. Confesso, mi è venuta la pella d’oca. Il pubblico in delirio. Il culmine è stato raggiunto quando sono saliti sul palco due bambini, anche loro vestiti e truccati con gli abiti e i colori tradizionali. il primo avrà avuto 3 anni e rullava le palette di legno su un piccolo ngoma perfettamente a tempo seguendo i suonatori adulti. La bambina avrà avuto 4 o 5 anni e danzava seguendo le donne. si può essere “sensuali” a quell’età? Vedendo lei ho pensato di si. Eccezionali. La gente dagli spalti ha comiciato a salire sul palco per lasciare soldi infilandoli nei costumi dei bambini (qui è tradizione fare cosi). I ballerini dal palco chiamavano gente a ballare con loro. Una danzatrice ha provato a chiamare anche noi. Mi sono vergognata della mia impacciataggine europea e non sono salita. Inotorno a me si muoveva tutto. C’è stato un momento in cui non si capiva più nulla. Il pubblico si era spostato tutto sul palco. Si sentivano solo i tamburi e le grida della gente. E un muoversi di corpi indistinguibili gli uni dagli altri.  A fatica è stato riportato l’ordine. Ancora un colpo di ngoma e si sono accese le luci. Finito tutto. È stato come se si fosse spento di colpo l’interruttore. Sono tornata alla realtà.

Come nelle migliore tradizioni, non ho neanche una foto della serata. La mia macchina fotografica si è inceppata proprio ieri mattina cadendo nella sabbia. Ma forse è stato meglio cosi. Lo spettacolo me lo sono goduta tutto, assaporando momento per momento senza la distrazione di immortalare costumi e tamburi. Spintoni e piedi nella schiena dei bambini intorno a me compresi. Mi dispiace per chi legge, ma forse va bene cosi, perchè un evento del genere merita di essere visto e vissuto dal vivo. Non si può trasmettere una carica simile di energia, vitalità, nervi, corpi umani, odore acre della pelle sudata e contatto con le persone accanto a te, un contatto che subito fuggi schizinoso e poi finisci per accettare. Un senso della musica, del ritmo, del rapporto con il corpo totalmente diverso da quello al quale sono abituata e che qui è connaturato alle persone, ai bambini. Che regalo questa serata. Penso di avere gustato un altro pezzettino d’Africa, che forse non potrò mai dire di “possedere”, ma almeno di avere visto, annusato.


Ps. Foto: i bambini appartengono a una delle scuole locali di Bagamoyo di ballo e musica tradizionale . Si sono esibiti anche loro durante il festival. L’altra foto l’ho scattata di nascosto durante un’esibizione domenicale sulla spiaggia di un’altra scuola di ballo di Bagamoyo.

sabato 21 settembre 2013

INCULTURAZIONE



Sono di ritorno dalla mia prima missione di  monitoraggio per il distretto di Bagamoyo. Una settimana di tante prime volte. Una settimana di incontri, di strette di mano, di saluti che piano piano comincio ad imparare, di occhi che ti guardano e ti sorridono, di colori accesi, di veli sovrapposti uno sull’altro a coprire i



corpi delle donne, di risate, di preghiere che senti venire la sera dalle moschee
Sono partita con una mia collega di Bagea e la facilitratice del CVM che segue i gruppi femminili di microcredito, i gruppi di vedove, i grupppi sulla violenza contro le donne e quelli dei progetti di sensibilizzazione in materia di educazione e diritto allo studio per le ragazze. Il monitoraggio era fatto per verificare l’andamento sopratttutto di questi ultimi. A compleatare il gruppo l’autista del CVM. Un omone che sa l’inglese ma non lo parla perchè la sua missione è insegnare lo swahili a tutti i volontari che arrivano. E che prende le strade tanzaniane come se fossero autostrade europee dimenticandosi che qui c’è il piccolo particolare dello sterrato, delle buche e delle infinite deviazioni.
3 giorni tra un susseguirsi di villaggi dai nomi esotici..Viguasa, Pera, Pingo, Diozile, Ubena, Bwilingu, Msoga (che è la città di origine del presidente Kikwete), Mboga, Lugoba.. Ovunque storie e incontri, straordinari nella loro ordinarietà. Storie di povertà, di fatica, di diritti negati o non ancora consapevoli. Storie di piccola violenza e di piccoli successi, e di sorprese come quando le donne di uno dei gruppi di microcredito ci raccontano che da alcuni mesi fanno volontariato in ospedale e aiutano i bambini in difficoltà della scuola del villaggio. E non ne avevano fatto la minima pubblicità. È difficile capire, colgo una parola in un discorso intero. Ma è bello anche cosi. Anche solo aspettare sotto un albero l’arrivo dei gruppi, anche solo guardare le persone negli occhi, strigere loro la mano..soprattutto quelle delle anziane, mani nodose, con le unghie cortissime e spesso tinte di giallo per la terra e il lavoro nei campi..e sorrisi acquosi e dolcissimi..anche quando ogni tanto gli occhi si velano di lacrime..
Giorni di prime volte....la prima volta in Guest House, sorta di piccoli affitta camere che qui trovi praticamente in ogni villaggio. La prima colazione alla tanzaniana, con un tazzone di thè alla cannella e muhogo, (la kasawa o patata dolce) tagliata a pezzi e fritta nell’olio che ti fa sentire sazio fino a sera. E il the allo zenzero fortissimo alla sera. E la frequentazione dei baretti-baracchini-locande sulla strada cosi simili a quelle del Madagascar, dove puoi trovare riso con carne e fagioli, servito in piatti di latta che hanno tanti scomparti diversi per le diverse componenti del pranzo, e pesce fritto, e le immancabili chipsy – patatine fritte, che qui trovi ovunque e che ti vengono spesso portate “da asporto” dentro sacchietti di plastica nera..e ugali, la polenta bianca, e banane in tutte le salse, bollite, grigliate, servite con insalata di pomodori, in zuppa con la carne, con i fagioli .. tutto su tavolacci di legno che colano olio da tutto le parti e mosche che fanno festa. E le cameriere che ti portano una brocca d’acqua per lavarti le mani perchè poi si mangia con quelle, appallottolando il riso o l’ugali e pocciandolo dentro le salse. E masai che sbucano da tutti gli angoli, vestiti con i tradizionali teli, i bastoni, i lobi delle orecchie forati che ci puoi fare passare dentro tre dita per i pesanti orecchini che portano, e sgommano via in moto..si sono modernizzati pure loro..
E la prima proposta di matrimonio, ricevuta proprio da un masai mentre eravamo in un baretto per il pranzo. È stato l’autista a dirmelo. Io ho ringraziato declinando gentilmente l’offerta, dicendo che non sarei stata una brava moglie visto che non cucino per niente. Quando l’autista ha tradotto ha suscitato l’ilarità generale.
E i paesaggi..spazi immensi, brulli, alberi che sanno di Africa finalmente, proprio quelli che vedevo nei documentari da bambina quando sognavo di visitarla quest’Africa cosi lontana..e case di fango e case di cemento con i porticati, e greggi di capre e palme, e poi di nuovo terra brulla, baobab e nuvole..
Devo ancora trovare una definizione soddisfaciente di inculturazione. Per me è anche questo.

sabato 14 settembre 2013

FORMAZIONE INFORMALE



É passata una settimana. La mia prima intera settimana in Tanzania. La testa ronza dalle e per le mille parole di una lingua che ancora non conosco ma il cuo suono e il cui ritmo cominciano piano piano a diventare familiari. É stata una settimana intensa, per certi versi faticosa, ma che se mi fermo un attimo a riflettere mi ha lasciato sorrisi e risate e un senso di spiazzamento che prima rifiuti e poi finisci per accogliere. In mezzo c’è stato il mio compleanno. Il mio secondo compleanno africano.

quello che vedo dall'ufficio
Ho cominciato la conoscenza-formazione con l’associazione locale che si occupa di diritto allo studio e al lavoro per le ragazze del distretto di Bagamoyo con cui lavorerò in questi mesi. Da programma era prevista un’intensa formazione su storia, economia, usi e costumi della città, più tutta una parte sull’associazione e sul lavoro che svolge, progetti, beneficiari, modo di lavoro..Solo una delle colleghe parla bene inglese. Le altre 3 praticamente solo swahili.  É stata una settimana buffa. Naturalmente molto diversa dalla formazione all’occidentale che mi aspettavo. Una settimana in ufficio ad ascoltare spesso senza capire, ascoltarle discutere e argomentare anche solo su chi debba farmi una particolare parte di formazione.                           Una settimana passata ad essere “coccolata” dalle colleghe che mi fanno assoggiare dolcetti e stuzzichini locali, dicendo che avendo la responsabilità su di me si devono preoccupare del mio benessere.                    Una settimana passata a conoscere molte delle beneficiarie direttamente, vedendole entrare in un ufficio che è grande come la mia stanza da letto, sedersi e parlare con le colleghe.
 
Vita di mare
Mercato del pesce
Vecchie strade di Bagamoyo
workshop dui diritti della donna e del bambino

Una settimana passata a scoprire Bagamoyo con loro che mi raccontano e mi mostrano quello che nessuna guida riporta o forse reputa importante. O almeno non in un modo “convenzionale”. C’è la storia della colonizzazione tedesca, la prima presenza cristiana nell’Africa dell’est, la tratta degli schiavi che aveva in Bagamoyo l’imbarco per Zanzibar e poi per l’Oriente. Ma c’è anche il mercato del pesce, le spiagge, le conchiglie, i riti di passaggio tradizionali per ragazze e ragazzi, le attività economiche tipiche, la pesca, l’agricoltura. Tutto questo raccontato in una lingua che non so neanche io che cos’è. Le mie prime vere lezioni di swahili. Informali naturalmente. Il mio corso di lingua partirà ad ottobre, sembra, e nel frattempo le colleghe provano a insegnarmi la lingua a modo loro.  Per esempio per raccontarmi la storia e l’economia di Bagamoyo, la mia collega Chau ha adottato questa tecnica. Davanti a me in cattedra con un righello in mano. Mi diceva una frase in quello che avrebbe dovuto essere inglese, sillabando e scandendo ogni parola con il righello, e poi me la ripetava a velocità razzo (cioè normale per lei ma non per me) in swahili. Poi mi guardava e diceva “Hai capito?”. Non capivo una parola, un po’ per l’accento inglese, un po’ per il mix di lingue, un po’ perchè per arrivare a capire che quella era proprio una strategia premeditata e non un accozzaglia di discorsi a caso ci ho messo un po’. Nel frattempo le colleghe la correggevano in swahili per il suo inglese. Il delirio. Volevo piangere. Poi ad un certo punto mi sono resa conto di quanto fosse paradossale la situazione, per me certo, ma anche per loro che poverette si trovano a spiegare i fatti loro a una perfetta estranea senza che fosse il loro mestiere. E siamo scoppiate tutte a ridere. Lei, io, le colleghe. Ma credo che comunque il metodo non sia stato del tutto inutile. In quella giornata ho imparato un sacco di parole. Comincio piano piano a riconoscere parole e espressioni nelle frasi che sento. Mi lancio in saluti di cortesia per poi rimanere instupidita quando loro rispondono al saluto porgendomene altri che necessiterebbero di un ulteriore passaggio. Ma non c’è problema. Dicono che tra poco parlerò swahili perfettamente, soprattutto perchè si vede che non ho paura di provare e sbagliare, (leggi “fare figuracce”). 

Come sempre, ho messo da parte per il momento i miei sogni di gloria su lavoro e affini. Faccio umilmente un passo indietro e mi limito ad ascoltare e guardare. Va bene cosi.


Ed è quello che ho fatto anche al primo workshop di formazione con le comunità di base a cui ho assistito ieri e oggi. Un workshop sui diritti dei bambini e delle donne e le violenze di genere, nel quadro dei progetti del CVM per la promozione e la protezione dei diritti dei gruppi marginalizzati. I partecipanti sono persone che a vario livello hanno un ruolo sociale importante nelle comunità: giudici di villaggio, donne influenti, persone che a titolo volontario si offrono di sensibiizzare/ascoltare/offire un sostegno nei proprio villaggi su queste tematiche. Worshop tutto in swahili. Ho partecipato con il facilitatore del CVM che mi spiegava i temi, i dibattiti, le risoluzioni. E' stato bello assistervi. Pur non capendo praticamente niente è stato bello vederli mettersi insieme, discutere sulla nozione di diritto del bambino e della donna, in generale e nei loro villaggi, vederli citare casi concreti, riflettere insieme, uomini e donne, anche alzando la voce (non riesco a capire se per stizza o semplicemente come modo di fare...).                                                                          Sono appena tornata a casa. Nonostante i dubbi e le paure che ci sono stati in questa settimana, le immagini di oggi mi fanno sorridere. Avanti tutta.

venerdì 6 settembre 2013

KAZI NZURI



Eccomi qui, secondo giorno a Bagamoyo, Tanzania.
É cosi strano. Ci sono momenti in cui mi sembra di sentire un non so che di familiare, di quotidianità, di colori e suoni già visti. Altri in cui mi ricordo dove sono, e quanto è distante casa.
Stamattina sono andata al mercato. Prima volta. I miei battesimi africani sembrano passare sempre da qui, deve essere un luogo dal significato metafisico. Ci sono andata con la cuoca dell’ufficio. Lei non parla una parola di inglese, io ne so a mala pena due di swahili. Una coppia perfetta. Sono partita con una lista della spesa tradotta in swahili dalla mia coinquilina-responsabile-country representative. Ad ogni banco mostravo la lista alla mia fida accompagnatrice, lei chiedeva e mercanteggiava, poi mi scriveva i prezzi sul foglio – cosi riesco a imparare più o meno il valore delle cose – e poi pagavo. 
Pomodori, cetrioli, carote, arance, latte e yogurt che qui vendono in sacchetti di plastica come quelli delle mozzarelle. Ecco la spesa. Ho passato due ore cosi. Ascoltare, guardare, senza capire nulla o quasi, seguirla nell’intricato garbuglio delle stradine di Bagamoyo. Stradine di sabbia, polvere che la gente spazza agli angoli delle porte, polvere che ti entra negli occhi in questo periodo di vento, strade che sanno di spezie e di carbone bruciato. E botteghe da cui esce la musica, e macellerie dove i pezzi di carne stanno appesi ai chiodi nei muri di piastrelle celesti. Immagini e sensazioni che mi riportano al Madagascar. 
E nello stesso tempo qualcosa di sempre nuovo, di sempre diverso, che mi àncora stretta a questo presente e mi stupisce e un po’ mi spaventa. E mi lascia addosso un po’ di quella paura ansiosa ed eccitata che si prova sempre davanti a quello che non si conosce. C’è odore di salsedine nell’aria. Forse è solo una mia suggestione, ma sento la vicinanza dal mare qui. Un caldo umido che non ho mai sentito a Tana. E poi la donne velate che ondeggiano per le strade, bellissime nei loro veli multicolori che incorniciano i visi e proteggono dalla polvere. E poi i piki piki, le moto taxi che vedo qui per la prima volta. Per tornare in ufficio ne abbiamo presa una. In tre su una moto. Io aggrappata all’autista con i sacchetti della spesa. La cuoca aggrappata a me con i suoi sacchetti. 
I viaggi mi portano sempre a pensare. Anche quelli scomodi e brevi come questo. Mentre rischiavo di perdere pomodori dalle buste di plastica nera. Pensavo ai mesi che mi aspettano. Se saprò vivere appieno questo tempo e queste opportunità, se sarò all’altezza delle persone intorno a me, se sarò all'altezza dei miei stessi sogni.
Una delle poche espressioni che ho imparato (e che ricordo) ieri insegnatami da un collega è “Kazi nzuri”=“buon lavoro”. Tralasciando le strutture grammaticali dello swahili che mi sono ancora del tutto oscure, vorrei che non restasse solo un’affermazione, ma un augurio e uno sprone che mi auto-faccio per accompagnare questi mesi.