martedì 11 marzo 2014

Microcosmi




A Dar es Salaam, tra Morogoro road e Kenyatta road c’è un posto che è come una porta su un altro mondo. Non ci sono cartelli o insegne a segnalarlo, è un passaggio un po’ stretto, quasi invisibile. L’ennesima sorpresa di quest’Africa che continua a stupirmi.

È il quartiere indiano, la zona dei templi indu. Qui, i colori, i suoni e gli odori di un’ India che non ho ancora mai visto si mescolano con i colori, i suoni, gli odori di un’Africa che comincia ad essermi familiare. Odori e colori che vengono da ancora più lontano di questa Africa già cosi lontana e che scopro qui per la prima volta. Un mondo dentro il mondo. L’India dentro l’Africa. Per me questo passaggio ha una collocazione geografica precisissima. Un venditore di cocco all’incrocio di due vie è la mia porta. Non lo puoi trovare su una cartina stradale. Ma per me è lì il passaggio, chiarissimo. Dopo avere camminato tra i banchi del mercato, tra arachidi e spezie e verdura e ceste di vimini e mais cotto alla brace, dove il sole fa marcire la frutta in fretta e nel naso entra l’odore forte delle bananen andate a male. Dopo essermi fatta spintonare da gruppi di donne forti e grosse, dai coloratissimi veli di un Islam che qui è colore e vivacità. Dopo avere rischiato di farmi rubare la borsa o essere presa in pieno da un pikipiki o da un bajaji in corsa. Dopo essere inciampata in una borsina di plastica nera perchè distratta dagli enormi cartelloni pubblicitari di una delle tante compagnie telefoniche del paese... Ecco, li c’è un punto in cui cambia la disposizione e la struttura degli edifici, in cui le cupole a volta sostituiscono i tetti squadrati, in cui vedi cambiare i tratti e i colori dei volti, la fogglia dei vestiti e dei cappelli, gli odori dei corpi. In cui il grigio del cemento dei vecchi palazzi si mescola al giallo e al rosa delle costruzioni indu. Capelli lunghi e lisci si mescolano ai capelli cortissimi o acconciati in treccine delle donne tanzaniane. E le barbe corte e grigie degli uomini sostituisco i visi glabri e nerissimi. Non te ne accorgi subito, poi c’è un attimo di stordimento. Camminando, ci sono momenti in cui non so più dove sono, in cui i punti di riferimento vengono meno, in cui ho paura di avere “sbagliato strada”, come quando apri una porta e ti ritrovi in una camera che non è quella che avevi lasciato.  

Lo stupore non mi ha fatto tornare indietro. Quando sono arrivata qui la prima volta, ho continuato a camminare  per queste strade, mi sono fermata davanti ai negozi  che esponevano sari, davanti alle botteghe di cibo indiano dove proprietari indiani si spiegano in uno swahili stentato con i camerieri tanzaniani, e poi mi sono fermata incantata davanti ai tanti templi e centri di cultura e spiritualità indu. È strano, bastava cambiare una via e tutto il paesaggio era cambiato. Ma nello stesso tempo era tutto cosi naturale, cosi reale. La prima volta che sono entrata in un tempio indu è stato a Mwanza, nel nord della Tanzania, la città in cui la comunità indiana è la più numerosa del paese. Il tempio era deserto, le guardie tanzaniane l’hanno aperto solo per me turista. Camminavo per i saloni ampi sentendo risuonare i miei passi. A Dar ho avuto la fortuna di trovare sempre i tempi aperti, pieni di gente che li “viveva” davvero. La prima volta, per caso, sono entrata in uno dei templi/centri dedicati a Pramukh Swami Maharaj. Intorno a me gruppi di persone che si incontravano lì per pregare, salutare amici e parenti, condividere il momento prima della cena, o semplicemente perchè fedeli a un rito che si porta avanti da anni. Mi sono trovata sempre per caso ad assistere a una cerimonia.  Guardavo in silenzio, facendomi piccola piccola per non disturbare. Lì, un’anziana mi ha visto, mi ha preso per mano e mi ha portato in un altra ala del centro per assistere alla “cerimonia della musica”dedicata a Swaminarayan, credo. Mentre mi raccontava la sua vita e quella del marito che aveva lavorato per una compagnia italiana di Dar, mi spiegava che da  40 anni tutte le sere veniva nel tempio per portare avanti quello che era diventato un rito, e mi spiegava il senso di quel trovarsi insieme ad altre donne, anziane, giovani, con bambini di tutte le età, per suonare e cantare.

Sono tornata a Dar. Sono tornata in questo microcosmo. Sono entrata nello stesso tempio. Tutto era al suo posto e nello stesso tempo diverso. Le persone camminavano come me per i saloni. Alcuni si inginocchiavano e recitavano litanie davanti a teche contenenti statue e giolielli antichi. Alcuni camminavano assorti intorno agli altari, e alla fine di ogni giro facevano rintoccare il suono di una campana. Un grande silenzio e una grande pace ovunque. Sono uscita e sono entrata nel tempio di fronte, il BAPS Shri Swaminarayan Mandir. Le sei di sera, l’inizio della celebrazione del fuoco. Uomini e donne si separano all’ingresso del tempio, nel momento in cui si tolgono le scarpe e le ripongono in apposite scarpiere di ferro. Le donne prendono la destra, dirigendosi verso il fondo del tempio, gli uomini entrano davanti. Ho seguito titubante un gruppo di ragazze che entravano alla spicciolata. Risate tra studentesse con gli occhiali spessi e i brufoletti dell’adolescenza. Poi raccoglimeno. Sono passata sotto volte decorate e colonne bianche scolpite,  sono entrata e  mi sono seduta sui tappeti blu imbottiti. Intorno a me, un vorticare di colori e stoffe diversi. Tuniche decorate con fili dorati a maniche corte portate su pantaloni in tinta. Vestiti lunghi fino ai piedi.  Le schiene nude delle donne più anziane, avvolte in sari che lasciano scoperte in parte la pancia e la schiena. Profumi di unguenti e creme che io non conosco. Giovani, donne di mezza età, anziane. Arrivavano a gruppetti o sole, si sedevano svelte e sempre svelte incrociavano le gambe mentre io non riuscivo a trovare una posizione comoda. E poi tutte concentrate a seguire la cerimonia. Io, che non capisco una parola di nessuna delle mille lingue dell’India, mi sono incantata ad osservarle, concentrandomi sui diversi vestiti, i particolari, gli orecchini al naso, l’acconciatura dei capelli, le unghie perfettamete laccate. Ogni tanto guardavo in alto, guardavo fuori, scendeva la sera e la luce del tramonto si rifletteva sulle colonne bianche. Nell’aria, odore di chapati cotto sulle braci in qualche ristorante vicino. Davanti, nella zona degli uomini, si alternavano predicatori e maestri che leggevano i veda, li commentavano, inserendo anche commenti sulla situazione attuale. Tra un discorso e l’altro, musica dolcissima e canti a cui la folla finisce sempre per partecipare, prima a bassa voce poi sempre più rapita. Un maxi schermo proiettava tutto quello che succedeva, anche i testi delle canzoni. Dove sono? Semplicemente sono rimasta lì, a guardarmi intorno, ad assistere a qualcosa che non capivo bene ma che ero contenta di poter vivere.

Alle 7 dovevo andare. Mi sono alzata, cercando di farlo svelta pur sapendo di risultare impacciata. Sono uscita lentamente, leggermente stordita, di nuovo sotto il colonnato già immerso nella sera scesa nel frattempo. Mi sono infilata le scarpe e sono uscita. La musica proveniente dall’interno si mescolava già con i suoni della strada. Per le vie era già cominciato il movimento della sera. La gente stava seduta ai tavolini dei ristoranti. Altri gruppetti di persone camminavano svelti verso casa o chiacchieravano davanti alle porte delle abitazioni. Giovani padri con bambine in braccio. Gruppi di donne in sari e le lunghe trecce di capelli finissimi. Commercianti indiani in piedi davanti alle loro botteghe. Ho fatto pochi passi ed eccomi di nuovo nella Dar africana. Sulle griglie si arrostiva la carne di manzo e il pesce, i banchi di frutta in chiusura, di nuovo odore di chapati e riso. Di nuovo volti e colori che cambiano. Dal vicino quartiere arabo arriva il canto del muezzin. Un altro microcosmo.

A Dar es Salaam la gente va di fretta. Soprattutto i wazungo, i bianchi. Sia quelli che vivono stabilmente qui ma che di solito risiedono e lavorano in altri quartieri, sia i turisti di passaggio che magari spendono a Dar solo poche ore, aspettando un battello per Zanzibar o un volo per una qualche altra destinazione.  Qui è difficile arrivarci. A meno che tu non voglia perderti.  Se ti prendi il tempo di camminare, di farti catturare da strade e vie che a prima vista sembrano intricate e impossibili da riconosere e ricordare ma che piano piano diventano parte di una topografia tutta particolare e personale, finisci per scoprire un cuore caldissimo e pulsante di questa Dar che non è solo il traffico e la confusione della stazione degli autobus di Ubungo (da cui partono i bus per tutto il paese) o lo sfarzo delle ville che si specchiano sulla Baia di Oyster. Colori odori suoni penetranti che mi entrano nel naso, negli occhi, nella pelle, si mescolano, si impastano al mio sangue, al mio sudore, insieme a tutto quello che ho vissuto, sovrapposizione dopo sovrapposizione. Mi costruiscono. E cosi ogni giorno la mia forma cambia un poco.

giovedì 6 marzo 2014

Venerdi mattina a Bagamoyo



Venerdi mattina a Bagamoyo. Una giornata cosi bella che non riesco a stare ferma, a non sorridere, a non muovermi. Dopo la burrasca di ieri, che sembrava davvero fare pensare all’inizio della stagione delle pioggie, con pioggia torrenziale e vento e acqua mescolata a polvere e sabbia, e fango nel quale ti impantani, e cieli sempre più neri e nuvole che non si svuotano ma si gonfiano sempre di più, è tornato a splendere il sole. Il tempo qui è come la sua gente, capace di farti incavolare, amareggiare, piangere, e dopo un attimo regalarti le soprese e i sorrisi più grandi.   Oggi c’è un cielo blu cobalto meraviglioso, l’aria fresca e il sole caldo, caldo caldo come solo il sole africano. Niente afa, niente umidità. Oggi si riesce a camminare spediti, non piegati da un calore soffocante che stende. Oggi i pensieri corrono veloci. Mentre venivo in ufficio, con la musica nel lettore, pensavo al mio essere in Tanzania, al mio esserci davvero. Forse l’ho realizzato davvero solo oggi. Quello strano e inspiegabile sentirsi un po’ a casa e un po’ sapere che questa non sarà mai davvero casa tua ma che alla fine va bene cosi. 
 E ci penso adesso, seduta sui copertoni delle macchine che qui fanno da “poltroncine da esterni”, davanti a casa di Mama Salumu, di fronte al mio ufficio, mentre aspetto le colleghe. Ci penso mentre seduta in mezzo a loro, guardo i bambini che piangono, ridono e leggono il mio libro di swahili. È un libro della seconda classe della scuola primaria, e abbiamo riso sul fatto che io sono più avanti di loro, che sono ancora in prima.  Ci penso mentre, ancora una volta, cammino  per queste strade assolate e polverose, a cui i miei piedi si sono ormai abituati. Ci penso mentre guardo i vecchi, seduti sui bordi esterni delle case, che mi guardano con le loro cofie ricamate in testa, le lunghe tuniche bianche e gli sguardi profondi, già pronti per andare in moschea.  E le donne con le ceste di foglie esiccate sulla testa e i kitenge allacciati in vita: prima di andare in moschea, loro, devono finire tutti i lavori di casa. Giornata di venerdi, tutto uguale agli altri giorni e tutto ancora più sonnolento e placido nella già sonnolenta Bagamoyo. La bottega all’angolo che serve da mangiare tutte le mattine, è chiusa, come tutti i venerdi. E cosi tanti altri piccoli negozietti. Le Mame che fanno i dolcetti della colazione oggi non lavorano: non c’è promessa di soldi che tenga. È venerdi. Anche le colleghe credo che respirino quest’aria: sono quasi le 9 e non si vede nessuno. Continuo a perdermi nella mia Bagamoyo. I ragazzi tornano a gruppi dalla spiaggia, dopo una notte di pesca in mare, per quello il venerdi non conta. Sanno di pesce, di alghe, di mare, i vestiti rovinati e i sorrisi larghi sulle bocche. Puoi sentirli arrivare annusando l’aria ancora prima che voltino nella via. Ora Neema è arrivata, si apre l’ufficio, mi siedo al mio tavolo. 
Pregusto quello che verrà: il canto del muezzin che fra qualche ora comincerà a chiamare alla preghiera del venerdi, il rincorrersi dei canti delle diverse mosche della città, e l’affrettarsi della gente alla preghiera, unico momento di frenesia della giornata, tutti divisi a gruppetti, le donne chiacchierando di cosa cucinare alla sera, gli uomini che si limitano a gesti di intesa e scosse del capo che corrispondono a precisi significati, i giovani con passo veloce aggiustandosi in ritardo le cofie in testa. Vedrò tutto questo dalla porticina dell’ufficio, una finestra su questo mondo brulicante che so che continuerà imperterrito e fedele a se stesso anche quando io non ci sarò più. I canti andranno avanti fino a sera. Accompagneranno la mia lezione di swahili del pomeriggio entrando dalle finestre scalcinate della scuola in cui prendo lezione. Accompagneranno il mio camminare verso casa, sulla spiaggia se la marea non è troppo alta.  Andranno avanti ancora più in là, a illuminare un’altra notte tanzaniana insieme alle stelle di questi cieli nerissimi. Un altro venerdi come tanti. Forse domani tornerà la pioggia, ma che importa?