A Dar es Salaam, tra Morogoro road e Kenyatta road c’è un
posto che è come una porta su un altro mondo. Non ci sono cartelli o insegne a
segnalarlo, è un passaggio un po’ stretto, quasi invisibile. L’ennesima
sorpresa di quest’Africa che continua a stupirmi.
È il quartiere indiano, la zona dei templi indu. Qui, i colori,
i suoni e gli odori di un’ India che non ho ancora mai visto si mescolano con i
colori, i suoni, gli odori di un’Africa che comincia ad essermi familiare. Odori
e colori che vengono da ancora più lontano di questa Africa già cosi lontana e
che scopro qui per la prima volta. Un mondo dentro il mondo. L’India dentro l’Africa.
Per me questo passaggio ha una collocazione geografica precisissima. Un
venditore di cocco all’incrocio di due vie è la mia porta. Non lo puoi trovare
su una cartina stradale. Ma per me è lì il passaggio, chiarissimo. Dopo avere
camminato tra i banchi del mercato, tra arachidi e spezie e verdura e ceste di
vimini e mais cotto alla brace, dove il sole fa marcire la frutta in fretta e
nel naso entra l’odore forte delle bananen andate a male. Dopo essermi fatta
spintonare da gruppi di donne forti e grosse, dai coloratissimi veli di un Islam
che qui è colore e vivacità. Dopo avere rischiato di farmi rubare la borsa o
essere presa in pieno da un pikipiki o da un bajaji in corsa. Dopo essere
inciampata in una borsina di plastica nera perchè distratta dagli enormi
cartelloni pubblicitari di una delle tante compagnie telefoniche del paese...
Ecco, li c’è un punto in cui cambia la disposizione e la struttura degli
edifici, in cui le cupole a volta sostituiscono i tetti squadrati, in cui vedi
cambiare i tratti e i colori dei volti, la fogglia dei vestiti e dei cappelli,
gli odori dei corpi. In cui il grigio del cemento dei vecchi palazzi si mescola
al giallo e al rosa delle costruzioni indu. Capelli lunghi e lisci si mescolano
ai capelli cortissimi o acconciati in treccine delle donne tanzaniane. E le
barbe corte e grigie degli uomini sostituisco i visi glabri e nerissimi. Non te
ne accorgi subito, poi c’è un attimo di stordimento. Camminando, ci sono
momenti in cui non so più dove sono, in cui i punti di riferimento vengono
meno, in cui ho paura di avere “sbagliato strada”, come quando apri una porta e
ti ritrovi in una camera che non è quella che avevi lasciato.
Lo stupore non mi ha fatto tornare indietro. Quando sono
arrivata qui la prima volta, ho continuato a camminare per queste strade, mi sono fermata davanti ai
negozi che esponevano sari, davanti alle
botteghe di cibo indiano dove proprietari indiani si spiegano in uno swahili
stentato con i camerieri tanzaniani, e poi mi sono fermata incantata davanti ai
tanti templi e centri di cultura e spiritualità indu. È strano, bastava
cambiare una via e tutto il paesaggio era cambiato. Ma nello stesso tempo era
tutto cosi naturale, cosi reale. La prima volta che sono entrata in un tempio
indu è stato a Mwanza, nel nord della Tanzania, la città in cui la comunità
indiana è la più numerosa del paese. Il tempio era deserto, le guardie tanzaniane
l’hanno aperto solo per me turista. Camminavo per i saloni ampi sentendo
risuonare i miei passi. A Dar ho avuto la fortuna di trovare sempre i tempi
aperti, pieni di gente che li “viveva” davvero. La prima volta, per caso, sono
entrata in uno dei templi/centri dedicati a Pramukh Swami Maharaj. Intorno a me
gruppi di persone che si incontravano lì per pregare, salutare amici e parenti,
condividere il momento prima della cena, o semplicemente perchè fedeli a un
rito che si porta avanti da anni. Mi sono trovata sempre per caso ad assistere
a una cerimonia. Guardavo in silenzio,
facendomi piccola piccola per non disturbare. Lì, un’anziana mi ha visto, mi ha
preso per mano e mi ha portato in un altra ala del centro per assistere alla
“cerimonia della musica”dedicata a Swaminarayan, credo. Mentre mi
raccontava la sua vita e quella del marito che aveva lavorato per una compagnia
italiana di Dar, mi spiegava che da 40
anni tutte le sere veniva nel tempio per portare avanti quello che era
diventato un rito, e mi spiegava il senso di quel trovarsi insieme ad altre
donne, anziane, giovani, con bambini di tutte le età, per suonare e cantare.
Sono tornata a Dar. Sono tornata in questo microcosmo. Sono
entrata nello stesso tempio. Tutto era al suo posto e nello stesso tempo diverso. Le
persone camminavano come me per i saloni. Alcuni si inginocchiavano e
recitavano litanie davanti a teche contenenti statue e giolielli antichi.
Alcuni camminavano assorti intorno
agli altari, e alla fine di ogni giro facevano rintoccare il suono di una
campana. Un grande silenzio e una grande pace ovunque. Sono uscita e sono
entrata nel tempio di fronte, il BAPS Shri Swaminarayan Mandir. Le sei di sera,
l’inizio della celebrazione del fuoco. Uomini e donne si separano all’ingresso
del tempio, nel momento in cui si tolgono le scarpe e le ripongono in apposite scarpiere
di ferro. Le donne prendono la destra, dirigendosi verso il fondo del tempio,
gli uomini entrano davanti. Ho seguito titubante un gruppo di ragazze che
entravano alla spicciolata. Risate tra studentesse con gli occhiali spessi e i
brufoletti dell’adolescenza. Poi raccoglimeno. Sono passata sotto volte
decorate e colonne bianche scolpite, sono
entrata e mi sono seduta sui tappeti blu
imbottiti. Intorno a me, un vorticare di colori e stoffe diversi. Tuniche
decorate con fili dorati a maniche corte portate su pantaloni in tinta. Vestiti
lunghi fino ai piedi. Le schiene nude
delle donne più anziane, avvolte in sari che lasciano scoperte in parte la
pancia e la schiena. Profumi di unguenti e creme che io non conosco. Giovani,
donne di mezza età, anziane. Arrivavano a gruppetti o sole, si sedevano svelte e
sempre svelte incrociavano le gambe mentre io non riuscivo a trovare una
posizione comoda. E poi tutte concentrate a seguire la cerimonia. Io, che non
capisco una parola di nessuna delle mille lingue dell’India, mi sono incantata
ad osservarle, concentrandomi sui diversi vestiti, i particolari, gli orecchini
al naso, l’acconciatura dei capelli, le unghie perfettamete laccate. Ogni tanto
guardavo in alto, guardavo fuori, scendeva la sera e la luce del tramonto si
rifletteva sulle colonne bianche. Nell’aria, odore di chapati cotto sulle braci
in qualche ristorante vicino. Davanti, nella zona degli uomini, si alternavano
predicatori e maestri che leggevano i veda, li commentavano, inserendo anche
commenti sulla situazione attuale. Tra un discorso e l’altro, musica dolcissima
e canti a cui la folla finisce sempre per partecipare, prima a bassa voce poi
sempre più rapita. Un maxi schermo proiettava tutto quello che succedeva, anche
i testi delle canzoni. Dove sono? Semplicemente sono rimasta lì, a guardarmi
intorno, ad assistere a qualcosa che non capivo bene ma che ero contenta di
poter vivere.
Alle 7 dovevo andare. Mi sono alzata, cercando di farlo
svelta pur sapendo di risultare impacciata. Sono uscita lentamente, leggermente
stordita, di nuovo sotto il colonnato già immerso nella sera scesa nel
frattempo. Mi sono infilata le scarpe e sono uscita. La musica proveniente
dall’interno si mescolava già con i suoni della strada. Per le vie era già
cominciato il movimento della sera. La gente stava seduta ai tavolini dei
ristoranti. Altri gruppetti di persone camminavano svelti verso casa o chiacchieravano
davanti alle porte delle abitazioni. Giovani padri con bambine in braccio.
Gruppi di donne in sari e le lunghe trecce di capelli finissimi. Commercianti
indiani in piedi davanti alle loro botteghe. Ho fatto pochi passi ed eccomi di
nuovo nella Dar africana. Sulle griglie si arrostiva la carne di manzo e il
pesce, i banchi di frutta in chiusura, di nuovo odore di chapati e riso. Di
nuovo volti e colori che cambiano. Dal vicino quartiere arabo arriva il canto
del muezzin. Un altro microcosmo.
A Dar es Salaam la gente va di fretta. Soprattutto i wazungo,
i bianchi. Sia quelli che vivono stabilmente qui ma che di solito risiedono e
lavorano in altri quartieri, sia i turisti di passaggio che magari spendono a Dar
solo poche ore, aspettando un battello per Zanzibar o un volo per una qualche
altra destinazione. Qui è difficile
arrivarci. A meno che tu non voglia perderti.
Se ti prendi il tempo di camminare, di farti catturare da strade e vie
che a prima vista sembrano intricate e impossibili da riconosere e ricordare ma
che piano piano diventano parte di una topografia tutta particolare e
personale, finisci per scoprire un cuore caldissimo e pulsante di questa Dar
che non è solo il traffico e la confusione della stazione degli autobus di
Ubungo (da cui partono i bus per tutto il paese) o lo sfarzo delle ville che si
specchiano sulla Baia di Oyster. Colori odori suoni penetranti che mi entrano
nel naso, negli occhi, nella pelle, si mescolano, si impastano al mio sangue,
al mio sudore, insieme a tutto quello che ho vissuto, sovrapposizione dopo
sovrapposizione. Mi costruiscono. E cosi ogni giorno la mia forma cambia un
poco.