domenica 24 aprile 2016

Viaggio alla fine del mondo - Equatore, Repubblica Democratica del Congo

Prima missione in Congo. Prima missione in Equatore, una delle regioni piu innaccessibili e dimenticate del paese. I miei colleghi mi hanno salutato con un misto di compassione e sollecitudine, un po incerti di fronte al mio entusiasmo nel poter scoprire un pezzettino in piu di questo meraviglioso paese. Per questa volta, praticamente niente foto, nessuna macchina fotografica per fissare immagini e ricordi,mi hanno rubato il telefono proprio qualche giorno prima di partire. Solo il cuore, lo stomaco,le mie parole scritte su carta lungo i lunghi tragitti per evitare che tutto vada nel dimenticatoio e cercare di lasciare qualcosa a chi legge. Una scoperta che inizia dal finestrino del volo umanitario che da Kinshasa si ferma nelle principali stop points della regione, Mbandaka, Libenge, Zongo, Bangui (in Centrafrica) per arrivare fino a Gbadolite, la mia destinazione, quella che fu la citta fortezza di Mobutu dove erano sorti hotel, une residenza da fare invidia alle villae romane, una cappella e una cripta presidenziale, busti di marmo finissimo e decori in oro, ora completamente in abbandono, ultimo bastione di un Deserto dei Tartari che qui esce dalla letteratura per farsi realtà. Sotto di me, per tutto il viaggio, solo foresta, la meravigliosa, verdissima, imponente foresta equatoriale ed enormi limacciose distese d’acqua, che si perdono nel fango dei fianchi scoscesi del fiume Ubangi. Tu, solo un puntino che potrebbe sparire nel ventre di questo paesaggio. Ogni fermata è una nuova immagine che si fissa nel cuore e nella testa. A Libenge, una pista di atterraggio che non si vede  fino a quando non ci siamo praticamente sopra. A  Zongo, passeggeri in attesa del volo che spuntano direttamente dalla foresta, in bicicletta, moto, a piedi. Bambini che escono dai loro “nascondigli” , a gruppetti fissandoti dal portellone aperto dall aereo con le braccia incrociate, per poi aprirsi in grandi sorrisi sinceri quando tu li saluti con la mano. Zongo-Bangui, il volo piu breve della storia, 10 minuti di viaggio solo per attraversare quella che in Congo chiamano “riviere” Ubangi mentre in Centrafrica “fleuve”. Ennesima porosa frontiera africana, dove i limiti, i confini sono una creazione della quale la natura sembra non tenere conto. Bangui, una specie di aereoporto giocattolo dove gli “operatori umanitari” restano tutti concentrati sui proprio telefoni satellitari, senza il tempo e la voglia di scambiare una parola con in vicino. Gbadolite, l’arrivo sotto un cielo che non ho mai visto cosi nero, il vento che si alza pieno di una polvere rossa che annebbia la vista e brucia gli occhi, e poi la pioggia scrosciante, violenta come solo le piogge equatoriali sanno essere. Il mio benvenuto in un aereoporto pieno zeppo di militari in arrivo e partenza, altro segnale della vicinanza ad una frontiera dove la pace è ancora da consolidare.

Ma è via strada che conosci davvero questa regione, percorrendo le piste disastrate di un luogo che non conosce l’asfalto. Gbadolite – Gemena e ritorno , 8 ore di pista massacrante ma meravigliosa, uno dei viaggi in macchina piu belli che io abbia mai fatto, malgrado siamo rimasti in panne due volte, siamo stati costretti a fare marcia indietro una volta e i giorni di macchina siano diventati 3. Cos’ è il paradiso? Credo che ognuno abbia la sua immagine in testa, o piu di una. Per me questo pezzo di strada è entrato a farne parte. Paesaggi di una bellezza sconvolgente, una natura cosi ricca, cosi possente e nello stesso tempo cosi placida, cosi semplice e perfetta. Intorno a me solo jungla, palme, manghi ovunque. Manghi stracarici di frutti grandi come piccoli meloni, penzolanti fragilmente dai rami. Lunghi pali di legno appoggiati ai tronchi che i bambini usano per fare cadere i frutti e venderli poi sul ciglio della strada. Capanne di paglia a gruppetti di due e tre, organizzate in piccole coorti di sabbia dalle soglie ostinatamente ben spazzate, in un sforzo impari delle donne contro la polvere che continua a stupirmi qui in Africa. Davanti a ogni capanna, due o tre semplici tavole di legno a formare bancarelle improvvissate dove puoi trovare tutto quello che questa natura produce, in una sorta di mercato itinerante che mi segue lungo tutto il viaggio, continuando ad affascinarmi malgrado l’abitudine. Ci sono i manghi, ci sono gli enormi jaquis dalla forma cosi strana e impressionante, palle di sapone casalingo, arachidi tostate e attentamente impilate in file di piccoli sacchetti di plastica, ananas, papaie, manioca pestata e venduta a tazze. Tutto mi colpisce e si imprime nella memoria. Capanne di paglia con i panni stesi ad asciugare sui tetti, corsi d’acqua placida e trasparentissima dove i bambini fanno il bagno schizzandosi e ridendo. Donne di tutte le età, dalle bambine di 2-3 anni alle nonne di 60 con carichi sulla testa, ognuno commisurato all’età e forza del portatore. Pagne coloratissime usate come abito, come porta-bebé, come protezione per i carichi sulla testa. Polli, caprette che attraversano impazzite la strada, maiali, tantissimi maialini che mi ricordano la mia Emilia, a bagno nelle pozze d’acqua lasciate sulla pista dalle ultime piogge. Le celebri bici-taxi di cui tanto ho sentito parlare in Kivu e  che finalmente vedo qui in pieno servizio, affascinata dai conducenti che continuano a sfidare la forza di gravità, trasportando carichi di quintali su piste in pendenza, senza mai perdere il sorriso. Si trasporta di tutto, taniche d’acqua e d’olio, carichi di manioca, caschi di platani, bambini, frutta..ho visto trasportare perfino un maiale, legato per i piedi e compostamente al suo posto.  Pannelli solari, piccolini ma numerosi, messi a ricaricare al sole accanto alle case. Una luce  dalle sfumature meravigliose che illumina tutto, un riverbero abbagliante che si fa via via piu dolce al passare delle ore; verso le 4- 5 del pomeriggio comincia a sentirsi, piu e prima ancora di vedersi, una luce diversa, piu dolce, piu soffusa. Non è solo la luce a cambiare. Lungo le lunghe ore di viaggio è la vita delle persone che ti scorre davanti, con i lori ritmi, i loro riti. Cortei funebri scanditi dai pianti acuti delle donne. La frenesia del mercato del sabato, quando vedi le persone uscire dalla foresta, a gruppetti, tutte insieme in marcia nella stessa direzione; quando capita un dislivello e puoi vedere la strada davanti a te, in salita o in discesa, colpisce il pupullare delle persone in marcia, una festa di colori e di pagne diverse. La calma della domenica o delle ore piu calde della giornata, dove tutti spariscono e la foresta sembra diventare il paese della bella Addormentata nel Bosco, con le sedie di legno che restano vuote davanti alle soglie di casa. E poi il pomeriggio che avanza e la gente ricompare, di nuovo in marcia per rientrare a casa.  E vedi fuochi intorno alle  case, famigie riunite insieme, odore di mais bollito nell’aria. Odore della sera, della giornata che finisce.

Che cos’è la povertà? me lo chiedo mentre passo di fianco a questo microcosmo, in cui tutto sembra avere la sua ragione d’essere e contribuire al suo perfetto funzionamento. Forse scarsità di mezzi tecnici, ma anche qui quello che vedo fa sorgere dei dubbi, dove l’ingegno e la laboriosità delle persone danno delle magnifiche prove di applicazione e riescono a contribuire a quasi tutti i bisogni. Non il superfluo, quello no, per quello non c’è spazio. Come non c’è spazio per la comodità, per la facilità: facilità di accesso ai servizi, alle città, facilità nell’accendere un fuoco, cucinare, lavarsi, arrivare ad un centro medico. Ma quello che vedo mi interroga e mi pone delle domande. Soprattutto di fronte al sorriso con cui sono accolta ovunque, alle lezioni di generosita e di dono gratuito che ho ricevuto a piu riprese durante questi giorni di viaggio da persone che avevano un decimo dei miei beni ma che erano sempre pronti a condividere un frutto, un goccio d’acqua, un po’ di olio per far ripartire la macchina, nella convinzione che qui, dove si fa fatica a conservare le cose, dove una pioggia rischia di farti marcire il raccolto, dove la mancanza di corrente non ti permette di conservare la frutta per piu di due giorni, non ha alcun senso tenere tutto per sè, accumulare, e meglio vale condividere con gli altri, sapendo che quel dono, quella gratuità sarà poi ricambiata e sarà quella che ti farà sopravvivere e che darà senso alla vita. Viaggio alla fine del mondo, viaggio alla scoperta di una delle sue mille frontiere. Viaggio alla scoperta di me stessa. 

domenica 31 gennaio 2016

Riprendere i fili – Primi giorni a Kinshasa

Kinshasa
Riprendo a scrivere dopo mesi di silenzio. Riprendo a scrivere in Repubblica Democratica del Congo (RDC), a Kinshasa. Una specie di sogno che si avvera, sono nel posto di cui leggendo, studiando, sognando è forse nata la voglia, la spinta per l’Africa, sono qui dopo anni di peregrinazioni in giro per il continente e ci ritrovo molto di quello che dell’Africa mi si è attaccato addosso in questi anni. Riprendo a scrivere in un sabato “normale”, 30 Gennaio 2016, mentre la temperatura fuori è di 30° e la gente si accalca nei baretti e nelle botteghe sulla strada per assistere ai quarti di finale della Coppa d’Africa delle Nazioni, RDC contro Rwanda, che si gioca oggi a Kigali.

No, non parlo (solo) della gente che vive nel quartiere e nei magnifici palazzi e uffici della Gombe, il quartiere dove sono concentrate le maggiori organizzazioni internazionali e dove, per ragioni di sicurezza, sono invitati a vivere tutti i bianchi. Dove vivo anch’io, con la luce elettrica e l’acqua corrente sempre a disposizione, con i climatizzatori potenzialmente sempre accessi, dove i 30° di umidità e zanzare se vuoi puoi non sentirli mai.

Madimba
Dico per strada, per i viottoli dei comuni di questa città brulicante e pulsante di 12 milioni di persone che piano piano, senza fretta e senza voler essere spericolata o incosciente, cerco però di conoscere e avvicinare. Una città dove la polvere calda e densa si mescola al fango degli acquazzoni che arrivano improvvisi la mattina presto o la sera, dove l’odore dei cumuli di spazzatura lasciati a putrefarsi all’aperto si mescola all’aroma degli arachidi tostati. Dove è impossibile (almeno per me) non farsi contagiare dall’allegria invadente della musica congolese lanciata a palla nelle radio di macchine, taxi, bus e negozi. Dove l’aria viene rotta e frantumata mille volte al secondo da risate e grida e voci mai misurate o controllate ma sempre traboccanti vita e energia. Strade dove puoi trovare di tutto, senza la minima logica, ragazzi che arrostiscono spiedini di capra accanto a venditori di scarpe la maggior parte delle volte spaiate, parrucchiere a cielo aperto, che ti fanno i capelli davanti a specchi appoggiati a cespugli e alberi, farmacie da banco montate su tavolacci di legno e lustrascarpe che aspettano un tuo cenno di richiesta. Dove i ragazzi ti sorridono sfrontati con i loro muscoli in bella vista e i loro “Bonjour mundele  (Buongiorno “bianca” in lingua lingala), offrendoti un giro a poco prezzo sulle loro pericolosissime moto taxi. Una città dove mi ritrovo intimidita da un contatto sempre così ravvicinato, invadente, con altri corpi umani, cosi diverso dalla distanza di sicurezza che manteniamo in Europa, e colpita da un odore intensissimo di pelle, di sudore, di essere umano. Un odore cosi diverso dal mio. Un odore che forse non riuscirò mai a sentire totalmente mio, come forse non riuscirò mai a sentirmi davvero parte di questa vita e di questa comunità, ma a cui in questi anni, piano piano, ho cercato sempre di avvicinarmi un po’di più, condividendo con tante persone diverse da me pezzetti di strada.
Giardino botanico di Kisantu
Un posto dove soprattutto la sera, quando torno a casa in macchina, il naso fuori dal finestrino, inalo a pieni polmoni questa aria umida e appiccicosa che sembra risultare fastidiosa a tutti tranne che a me, mescolata all’odore di patatine fritte e manioca. E mi lascio cullare dal vento fresco perdendomi in questo cielo che è sempre chiaro per le mille luci della città e per l’abbondanza di stelle. Una città, un paese dove la natura è sfrontata, invadente, onnipresente, dove gli alberi, le palme, anche i cespugli sono a mio vedere più grassi, alti, ricchi, dove basta un temporale di mezz’ora e tutto spunta, germoglia, cresce, con un verde di un’intensità sconvolgente. I tropici. Riprendo a scrivere in e di un posto nel quale ritrovo tanto del mio passato, soprattutto della Tanzania, e nello stesso tempo mi scopro diversa e piu ricca ogni istante. Riprendere i fili e nello stesso tempo sentire di starne costruendo di nuovi.

Madimba
Ingresso della Maison du sourire

Oggi sono andata a trovare Lucia e Massimo, fuori dalla Gombe appunto, nel quartiere di Kimbanseke. Quando l’ho detto in ufficio, mi hanno guardato con un misto di stupore e diffidenza. “Cosa ci vai a fare lì?”. Lucia e Massimo in Italia hanno fondato la onlus Non basta un sorriso, per sostenere le attività che svolgono qui a Kinshasa, a favore dei bambini in situazione di disagio. A Kimbanseke hanno aperto una casa per accogliere bambini abbandonati o orfani La maison du sourire e hanno iniziato, attraverso il sistema delle adozioni a distanza, un progetto di scolarizzazione, aprendo una sezione di scuola materna e elementare per offrire ai bambini più disagiati del quartiere un’educazione di qualità e gratuita. Nessun progetto megagalattico ad alto impatto visivo o mediatico. Ma la scelta di restare nel quartiere, stare alle regole della gente del posto, provando a mostrare che i cambiamenti a volte sono i piccoli semi seminati nel silenzio e nell’umiltà. E a volte cosi si producono i cambiamenti piu sconvolgenti. Io non lo so se i sorrisi non bastano. In questi anni “africani” fatti di tante piccole scomodità quotidiane, di stanchezza rispetto a culture e modi di vivere e pensare che spesso non capisco e forse non capirò mai fino in fondo, della fatica di sentirsi straniera e mai veramente accettata, della morte che entra nella tua vita e in quella delle persone con cui lavori e vivi con molta più facilità e rassegnazione di quanto non capiti in Europa, di una scorza di cinismo che ti si attacca addosso e che un po’ intacca l’idealismo dei primi tempi, i sorrisi, gratuiti, sfacciati, a volte sconsiderati, sono la cosa che più mi è rimasta dentro e che continua a stupirmi e accompagnarmi. Quello che so è che oggi, mentre sul divano del salotto della Maison tenevo in braccio la piccola Lumi, accerchiata, quasi soffocata, dal calore denso dei corpi degli altri nove bimbi nella cappa umida della giornata, circondata dai loro sorrisi a 45 denti, non ho sentito differenza nell’odore della nostra pelle del nostro sudore.


Mentre finisco di scrivere queste righe sento esplodere un boato fuori dalla finestra. Tranquilli, nessuna manifestazione politica o tafferuglio elettorale. I Leopardi della RDC hanno vinto contro il Rwanda. E in tutta la città, alla Gombe come a Kimbanseke è doveroso festeggiare come si deve.