Bagamoyo, 15 dicembre 2013
Questa settimana ho partecipato a
un workshop di due giorni sui diritti umani organizzato dal CVM e rivolto a
tutti i suoi partner, Bagea, l'associazione con cui collaboro, ma anche tante altre associazioni impegnate nella promozione e difesa dei diritti di donne e bambini.
La mia educazione è stata “infarcita”
dalla parola “diritti umani”: a scuola, all’universtà, per televisione, sui
giornali, a seminari di approfondimento..in Europa è una parola che senti
spesso sulle nostre bocche. Con un’accezione che diventa sempre più ampia, più
omnicomprensiva, quasi filosofica, senza però la sicurezza che nella
quotidianeità i diritti più o meno importanti vengano rispettati davvero. Ero molto curiosa di vedere come sarebbe
stato stato organizzato il workshop, curiosa di vedere come si sarebbe
affrontato il tema dei diritti umani qui a Bagamoyo, quello che sarebbe venuto
fuori dai dibattiti.. Forse sono arrivata al worshop immaginandomi gli stessi
dibattiti articolati, complessi, che si perdono in mille dettagli e sfumature
dei termini che facciamo nelle nostre università o nelle nostre tavole rotonde..
Tutto il mio ragionare è stato
messo in discussione fin dal primo giorno di worshop. Appena finite le
presentazioni e la spiegazione sul senso del seminario – capire e discutere sui
termini e sulla legislazione esistente in Tanzania in materia di diritti umani
e nello specifico dei diritti del bambino e delle donne- siamo stati divisi in
tre gruppi, ed ad ogni gruppo è stato chiesto di rispondere ad alcune domande
preliminari: 1. Che cos’è un diritto? 2. Cosa sono i diritti umani? 3. Qual è
la qualità/caratteristica dei diritti umani?
Il worshop era naturalmente in
swahili, e cosi io avrei voluto defilarmi, ma i membri del mio gruppo hanno
chiesto anche a me di dare il mio contributo, aiutandomi con l’inglese. Ho
subito cominciato a elaborare nella mia testa la definzione che fosse la più corretta
e completa di “diritti umani”, ripescando nella memoria gli infiniti corsi di diritti di tutti i tipi seguiti in
università, preoccupandomi di dare definizioni molto articolate intorno a
termini come universalità, reciprocità etc etc. Gli altri membri del gruppo mi
hanno preceduto. Spiazzandomi un po’. “I diritti umani sono il diritto alla
vita, il diritto a un’educazione di qualità, il diritto alla salute” hanno
detto. Cose concrete, cose molto ben determinate. Che forse da un punto di
vista giuridico non rispondono appieno alla domanda “che co’è un diritto? Qual
è la sua caratteristica?” ma forse rispondono molto di più alle carenze che si
vedono tutti i giorni qui a Bagamoyo e alle necessità che vengono sentite come
le più urgenti e più bisognose di essere definite “diritti”.
Ancora, se proprio c’era da fare
un elenco di diritti, io avrei sicuramente inserito il diritto alla libertà. Libertà
di pensiero, di parola, di stampa. Concetti a cui in Europa si è molto legati e
che io stessa considero non parole vuote ma diritti fondamentali da difendere e
valorizzare. Ma nessuno dei miei compagni ci ha pensato o l’ha nominato. Per
loro, era molto più prioritario parlare di diritto all’educazione di base, in
un paese in cui c’è un altissimo tasso di abbandono scolastico, soprattutto
femminile, per ragioni culturali e sociali ma anche economiche, visto il costo
proibitivo per molto famiglie legato alla scolarizzazione (acquisto della divisa
scolastica – obbligatoria-, costo dei pasti, del trasporto e dell’alloggio per
i ragazzi che vengono da lontanto, soprattutto per quanto riguarda la scuola
secondaria..). Come cambia la priorità di necessità e diritti da un paese
all’altro! Come cambia anche il significato che diamo agli stessi termini.
Penso per esempio al fatto che quando in Italia parliamo di difesa del diritto
all’istruzione, parliamo di riforma universitaria, di fondi per la ricerca, di
tirocini retribuiti..quanto è grande il divario! Già solo questo primo momento
di confronto mi ha fatto riflettere moltissimo.
Dopo avere chiarito un po’ di
definizioni preliminari, ci siamo addentrati più nello specifico sul tema dei
diritti del bambino. Anche qui, tanti spunti di riflessione. Si è arrivati a
parlare del problema del lavoro minorile. In Tanzania esiste una legge che
regolamenta la situazione e fissa limiti di età per diverse categorie di
lavoro: fino ai 12 anni i bambini non possono lavorare. Dai 12 ai 15 anni
possono lavorare in casa come “aiuto domestico” per la famiglia. Dai 15 possono
cominciare a essere assunti regolarmente. Ad un certo punto il facilitatore del
workshop ha chiesto ai presenti chi avesse in casa una ragazzina come aiuto per
i lavori domestici. Si tratta di una pratica diffusissima qui in Tanzania, come
in tanti altri paesi africani: prendere in casa una ragazzina che aiuti con le
pulizie, la prepazione dei pasti, i lavori domestici. Spesso si tratta di
ragazzine provenienti da famiglie povere o che cercano di mettere da parte i
soldi per pagare la scuola secondaria. Nessuno qui ci vede di niente di strano.
È un modo per avere un aiuto in casa dando qualche soldo a chi ne ha bisogno.
Io, con la mia sensibilità italiana, faccio ancora fatica a considerarlo “normale”,
e un po’ la domanda del facilitatore, fatta a membri di associazioni che si
battono per la tutela dei diritti dei bambini, mi ha toccato. In diversi hanno
alzato la mano. Il facilitarore ha chiesto l’età delle ragazzine,
complimentandosi per il fatto che nessuno di loro avesse preso in casa una
ragazzina fuori dai limiti di età previsti dalla legge. Quello che per me era
comunque un mancato rispetto dei diritti bambini (il fatto di farli lavorare)
veniva invece considerato un primo passo per una migliore tutela proprio di
quei bambini. Anche qui, ho cominciato a pensare alla differenza che esiste tra
il contesto nel quale sono cresciuta e quello in cui mi trovo a vivere ora. Un
contesto nel quale comunque è normale che tutti i bambini, anche se non formalmente
impiegati, “lavorino”, per esempio andando a prendere al pozzo o alle cisterne
l’acqua in taniche da 10 o 20 litri (che io non riesco neanche a sollevare), o
prendendosi cura dei fratelli, o aiutando la famiglia nelle vendita di frutta o
verdura.. un contesto nel quale la nozione di “lavoro”, “diritto”, “tutela” forse
non possono avere le stesse dimensioni che sono abituata ad utilizzare io. Un
contesto nel quale credo sia necessaria molta attenzione e precauzione nel
giudicare e dare pareri.
Il workshop è continuato a lungo,
con bellissimi momenti di dibattito e di confronto sulle esperienze delle
diverse associazioni. Per esempio, il secondo giorno di seminario, che era
dedicato ai diritti della donna, è stato bellissimo vedere le differenze tra i diversi
tipi di matrimonio previsti in Tanzania, quello “governativo”, quello islamico
e quello cristiano, spiegati non solo tramite i testi di legge, ma direttamente
dai partecipanti appartenenti alle diverse confessioni, che si sono confrontati
sulle proprie specificità trovando poi più punti in comune di quello che
pensavano. C’è stato spazio per le domande e per i chiarimenti, con i
facilitatori che aiutavano a comprendere certi passaggi dei testi di legge. C’è
stato spazio anche per le risate davanti a un piatto di riso condiviso. Per me
è stata soprattutto l’occasione per “uscire” un po’ di più da me stessa e da
ciò che consideravo e forse considero come delle certezze. Parlando di diritti
umani, forse è vero che sui manuali di diritto si possono trovare definizioni
“universali”, e credo davvero che la qualità di un diritto umano come tale
debba essere e sia il fatto di appartenere all’Uomo, ad ogni uomo
indistintamente, senza divisione in categorie, gruppi, senza eccezioni. Ma
penso anche che quello che questo workshop e più in generale questi mesi in
Tanzania mi stiano aiutando a capire è il bisogno di guardare sempre prima
all’uomo, all’uomo nel suo contesto particolare, all’uomo nel suo tempo e nella
sua storia, che qui in Tanzania è diversa dall’Italia o dalla Spagna o dalla
Germania. Il bisogno di declinare e sfumare quei diritti nel contesto in cui ti
trovi, senza voler per forza imporre qualcosa. Voglio dire, credo ci voglia
molta cautela nell’affermare come assolute nozioni e definizioni che forse sono
validi e hanno un certo valore per me ma possono averne un altro per altre
persone. Anche questo è un diritto umano. La tolleranza. Il rispetto delle
diversità. Credo che solo partendo da questo si possa pensare di capire un po’
meglio l’altro e entrare un po’ di più nella sua storia. E questo non vale
solamente per il mio rapporto con i tanzaniani. Ma vale, credo, per l’incontro
con ogni uomo diverso da me.