domenica 5 settembre 2021

Ayutthaya, La rivincita del tempo

Ho sentito parlare per la prima volta di Ayutthaya durante il mio primo soggiorno a Bangkok nel 2017, quando, avendo un weekend libero e dovendo trovare qualcosa da fare, alcuni colleghi avevano parlato di questo “sito storico da visitare assolutamente”. La descrizione era un po’ fumosa, ed io ero rimasta, confesso, un po’ scettica. Mi era sembrata una gita per turisti “alle prime armi”, desiderosi di tornate a casa con foto pittoresche e incredibili aneddoti su vestigia del passato raccolte in una specie di parco dei divertimenti archelogico. Forse, non volevo semplicemente ammettere di non sapere nulla a proposito ðŸ˜‰

All’epoca, avevo preferito sfruttare il tempo per immergermi nella vita densa, e ben piú caotica della città, io che non amo il caos delle metropoli, ma che sono sempre molto curiosa di scoprire la vita delle persone. Non me ne pento, anche grazie alla presenza della mia straordinaria guida in quell’occasione, un collega thailandese che mi aveva aiutato davvero ad entrare nella storia della città.

Tornata in Thailandia, ho deciso di dare una chance ad Ayutthaya, rendendomi appunto conto di non saperne nulla, come quasi nullla sapevo (e tuttora so) della storia culturale, sociale, politica di questa regione - che è difficile racchiudere nei confini nazionali attuali. Quanti pregiudizi, e quanta superbia.

Sono rimasta incantata. In quello che ai miei occhi è apparso come il giardino di un paradiso perduto, un paradiso in rovina, dove i tratti dell’antica bellezza sono allo stesso tempo cosi vividi e cosi sfumati in un contrasto quasi doloroso. Camminando tra quelle che erano le strade di una cittadella imperiale, e tra le stanze di palazzi e stupe (templi), sono rimasta incantata e persa davanti a quelle incisioni, a quelle statue, a quella bellezza imponente e allo stesso tempo delicata e accuratissima. Un labirinto accessibile pensato per rappresentare il culmine della potenza umana, per sostenere e corroborare il potere di una regno, dargli una degna “dimora” fisica. Con il “divino” chiamato a testimone, nelle vesti di centinaia di buddha di tutte le taglie e posizioni, protettori e guardiani di quel potere. Forse, anche con l’implicita fiducia che quel sostegno fosse un dato assodato. O forse sperando che proprio nel dargli una dimensione fisica, quel potere fosse davvero reale, destinato a durare in eterno.

Per un attimo, mi sono venute alla mente le lezioni del liceo sull’ubris greca. L’eccesso di superbia umana, il volere andare troppo oltre, oltre gli stessi dei. E lo so che qui siamo in un contesto filosofico completamente diverso, ma la mente gioca sempre strani scherzi.

La bellezza dell’arte umana, e nello stesso tempo, la sua fragilità, il suo essere effimera. Perchè proprio quando vuoi dare una forma fisica (e piú forte) ai tuoi sogni, quel sogno comincia a sgretolarsi.

I sorrisi placidi e beffardi dei Buddha, su corpi (i loro) ormai in disfacimento, scheggiati, sfregiati, mi hanno suggerito proprio quello. Per la prima volta in vita mia, degna erede di un popolo abituato a vivere nell’ombra di antiche glorie, ho realizzato come la bellezza del passato, per quanto o forse proprio in virtú della forza che testimonia, possa essere estremamente triste. Testimone di uno splendore che non c’è piú, e della caducità della vita, di sforzi vani contro qualcosa di ineluttabile.

Mentre camminavo per i vialetti e l’immenso parco, immersa nel silenzio del luogo, ho provato una grande malinconia, ma anche estrema pace, riposo, abbandono. Avrei potuto restare cosi per ore, come dentro una magia che non so spiegare. Perchè questo “risveglio” non ha portato solo tristezza.

Quel regno è passato. Che cosa è rimasto dello splendore della città? Non certo príncipi o regine. Resta il tempo. Il tempo che erode e che lascia il suo marchio sulle cose, le persone, le costruzioni. Restano gli alberi, il sole, la pioggia. La dirompenza di una natura lussureggiante che tutto avvolge, e che ricama le rovine dei palazzi, le teste dei buddha scalfite, le ingloba in un’opera d’arte ancora piu bella e completa. E quesgli sguardi sfuggenti e quei sorrisi beffardi ridotti a metà sembravamo dirmi proprio quello. Il potere, la forza, anche la divinità, non la si puó imbrigliare (solo) in corpi di pietra e marmo, per quanto meravigliosi. L’arte come la vita è un guizzo che vibra e scivola via, soffia e prende forma in quello che facciamo, ma non resta mai ferma, immobile. E ci invita a seguirla, a fare altrettanto.

Ayutthaya è stata una sorta di lezione di vita, come l’Asia continua a esserlo per me. Il senso di fragilità e di inferiorità, ma anche la gratitudine per questa “scoperta”. La nostra piccolezza, ma anche la bellezza che possiamo creare e lasciare, se accettiamo di non esserne padroni o dominatori. Quel sorriso ineffabile, beffardo e dolcissimo mi accompagna, e mi invita a prendere tutto, me inclusa, con piu leggerezza, e a ricordarmi la complessa semplicità della vera opera d’arte, la vita, qui e ora.


PS. per informazioni piú dettagliate sul sito di Ayutthaya (e sul perchè valga la pena visitarlo, oltre ai miei sproloqui), si puó consultare per esempio: https://whc.unesco.org/en/list/576/