Ho sentito parlare per la prima volta di Ayutthaya durante il mio primo soggiorno a Bangkok nel 2017, quando, avendo un weekend libero e dovendo trovare qualcosa da fare, alcuni colleghi avevano parlato di questo “sito storico da visitare assolutamente”. La descrizione era un po’ fumosa, ed io ero rimasta, confesso, un po’ scettica. Mi era sembrata una gita per turisti “alle prime armi”, desiderosi di tornate a casa con foto pittoresche e incredibili aneddoti su vestigia del passato raccolte in una specie di parco dei divertimenti archelogico. Forse, non volevo semplicemente ammettere di non sapere nulla a proposito 😉
All’epoca, avevo preferito sfruttare il tempo per immergermi nella vita densa,
e ben piú
caotica della città , io che non amo il caos delle metropoli, ma che sono sempre
molto curiosa di scoprire la vita delle persone. Non me ne pento, anche grazie
alla presenza della mia straordinaria guida in quell’occasione, un collega
thailandese che mi aveva aiutato davvero ad entrare nella storia della città .
Sono rimasta incantata. In quello che ai miei occhi è apparso come il
giardino di un paradiso perduto, un paradiso in rovina, dove i tratti dell’antica
bellezza sono allo stesso tempo cosi vividi e cosi sfumati in un contrasto quasi
doloroso. Camminando tra quelle che erano le strade di una cittadella
imperiale, e tra le stanze di palazzi e stupe (templi), sono rimasta
incantata e persa davanti a quelle incisioni, a quelle statue, a quella
bellezza imponente e allo stesso tempo delicata e accuratissima. Un labirinto
accessibile pensato per rappresentare il culmine della potenza umana, per
sostenere e corroborare il potere di una regno, dargli una degna “dimora”
fisica. Con il “divino” chiamato a testimone, nelle vesti di centinaia di buddha
di tutte le taglie e posizioni, protettori e guardiani di quel potere. Forse,
anche con l’implicita fiducia che quel sostegno fosse un dato assodato. O forse
sperando che proprio nel dargli una dimensione fisica, quel potere fosse
davvero reale, destinato a durare in eterno.
Per un attimo, mi sono venute alla mente le lezioni del liceo sull’ubris
greca. L’eccesso di superbia umana, il volere andare troppo oltre, oltre gli
stessi dei. E lo so che qui siamo in un contesto filosofico completamente
diverso, ma la mente gioca sempre strani scherzi.
La bellezza dell’arte umana, e nello stesso tempo, la sua fragilità , il suo
essere effimera. Perchè proprio quando vuoi dare una forma fisica (e piú forte) ai tuoi sogni, quel sogno comincia
a sgretolarsi.
Mentre camminavo per i vialetti e l’immenso parco, immersa nel silenzio del
luogo, ho provato una grande malinconia, ma anche estrema pace, riposo,
abbandono. Avrei potuto restare cosi per ore, come dentro una magia che non so
spiegare. Perchè questo “risveglio” non ha portato solo tristezza.
Ayutthaya è stata una sorta di lezione di vita, come l’Asia continua a
esserlo per me. Il senso di fragilità e di inferiorità , ma anche la gratitudine
per questa “scoperta”. La nostra piccolezza, ma anche la bellezza che possiamo creare
e lasciare, se accettiamo di non esserne padroni o dominatori. Quel sorriso ineffabile,
beffardo e dolcissimo mi accompagna, e mi invita a prendere tutto, me inclusa,
con piu leggerezza, e a ricordarmi la complessa semplicità della vera opera
d’arte, la vita, qui e ora.
PS. per informazioni piú dettagliate sul sito di Ayutthaya (e sul perchè valga la pena visitarlo, oltre ai miei sproloqui), si puó consultare per esempio: https://whc.unesco.org/en/list/576/