giovedì 27 dicembre 2012

Natale in carcere



Confesso, quest’anno ho fatto fatica a sentire avvicinarsi il Natale..sarà il clima tropicale, sarà il sole che splende e batte durante il giorno facendo sudare anche una freddolosa come me e che mi fa pensare ai lugli padani più che a dicembre, sarà l’umidità mostruosa che sale verso sera e le piogge torrenziali che l’accompagnano..sarà il lavoro intenso delle ultime settimane e la stanchezza che hanno occupato tutte le mie energie..si non c’è dubbio questo non è il Natale che avevo in mente.

E poi, come ormai il Madagascar mi ha già abituato, capita qualcosa che mi fa cambiare idea e mi scuote, proprio quando ormai non mi aspetto più niente e mi sono rifugiata in un sordo e solitario brontolio.

Il 23 dicembre sono andata in carcere, come quasi tutti le settimane ormai, per un “grande” evento: il pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Si tratta ormai di una tradizione qui a Antananarivo, durante la quale nei diversi “quartieri” in cui è diviso il carcere viene organizzata una mattinata di preghiera e festa seguita dalla distribuzione di un pasto caldo: riso (che viene cotto direttamente dentro i quartieri) e loaka (l’accompagnamento di carne e verdura) che invece viene preparato fuori e poi portato dentro. Per me, che festeggio il mio primo Natale in Madagascar, si trattava di una novità assoluta.

La mattina ci siamo ritrovati alle 7 e mezza nel piazzale del carcere per le ultime indicazioni, noi volontari italiani, i volontari malagasci, e “un esercito” di una trentina di suore rappresentanti un buon numero dell’ampio ventaglio di congregazioni presenti qui in Madagascar che tutti gli anni si offrono di dare una mano per la preparazione/distribuzione del pasto. 

In realtà appunto a me non era chiesto di “fare” molto: sono i carcerati che si occupano della cottura del riso una volta portato dentro e sotto la supervisione delle suore, e sono sempre i carcerati che si occupano della preparazione e organizzazione delle celebrazioni, degli spettacoli. Quello che veniva chiesto a me, oltre dare una mano dove ci fosse bisogno, era soprattutto il fatto di stare con la gente, di fare festa insieme ai carcerati.

Una volta divisi i compiti, ho seguito le suore nel quartiere che ci era stato asseganto.  Ed è stato li che ho sentito piano piano il Natale arrivare, anche ques’anno.
Mentre davo una mano a montare l’alberello di Natale che non ne voleva sapere di stare in piedi ma che ogni volta veniva raddrizzato tesdardamente dai carcerati.
Mentre addobbavamo con striscioni e stelle la cappella. Mentre arrivavano da chissà dove tamburi, chitarre, tastiera, microfoni per animare la giornata.
Mentre cantavo con i carcerati, dividendo orgogliosamente con loro microfono e libretto dei canti, durante la liturgia ecumenica che cattolici, protestanti, avventisti hanno organizzato al posto della messa tutti insieme, dividendosi alla pari compiti e spazi .
Mentre molto semplicemente “mi godevo lo spettacolo” organizzato finite le preghiere nell’attesa di un riso che non cuoceva mai, la cappella trasformata in un palcoscenico a scena aperta su cui i carcerati si sono esibiti a turno per più di due ore: musicisiti, cantanti, corali delle vari stanze del quartiere con tanto di medaglietta di riconoscimento, ognuno con il suo pezzo e il suo programma ma ognuno generosamente disposto a prestare una strumento, a suonare insieme agli altri..chiarissimo e toccante l’orgoglio e la gioia da parte di tutti i presenti di prendersi quel momento, di farlo proprio in uno scambio e un ruotarsi di strumenti, di voci, di abbracci..
e ho sentito il Natale anche più tardi, alle 2 passate, distribuendo il riso finalmente cotto, con salsiccia e lehisoa(verza) e pure una banana perchè è festa e bisogna festeggiar, augurando “Tratry ny Noely” sotto un sole che sembrava agosto.
Siamo venuti via alle 4 passate, la stessa ora a cui mi sarei alzata da tavola per il pranzo di Natale a casa, pensandoci bene.

Quest’anno per me il Natale è stato questo. Manca sempre un po’ il calore di casa, la testa e il cuore corrono alla cena della vigilia con mamma-papà-fratello-nonni-zii-cugini, manca l’odore e il sapore di certi riti fatti da sempre ma che per me continuano ad avere un senso e un valore.  Ma quest’anno c’è stato un altro calore che ho sentito, un altro senso di casa e di familiarità e di festa, facendo festa
con gente condannata in alcuni casi fino alla morte, avendo il privilegio di assistere  a un assolo di vilia (strumento tradizionali malgascio ), trasportando secchi colmi di salsicce,  ascoltando vecchietti che ci si immaginerebbe in tutt’altro posto che non nel cortile di una prigione, che però sanno ancora cantare a sguarciagola e con gli occhi lucidi “Misaotra Tompoko, misaotra Andriamanitra”(grazie Signore) .

Tutti loro, oltre a farmi sentire le mie fatiche più leggere e sopportabili, mi hanno fatto sentire più vicino e vero l’arrivo del Signore qui su questa terra, ancora una volta, per loro, per me.

Buon Natale e Buon inizio 2013 a tutti

venerdì 20 luglio 2012

Un venerdi come tanti

Sono nel mio ufficio, che cerco di riassumere tutti i mei appunti sule visite di controllo fatte nei centri scolastici..ma è quasi impossibile..dalla chiesa “bory bory” (=tonda, per via del campanile) accanto a noi arriva l’eco dei canti dei bambini. No, mi spiego meglio, non solo l’eco, in realtà sembra che in chiesa ci sia anch’io o che viceversa stiano cantando direttamente davanti alla mia scrivania.
Il venerdi è il giorno delle prove dei canti qui in parrocchia: fin dal mattino, quando arrivo in ufficio, si cominciano ad accalcare orde di bimbi per entrare in chiesa..un po’ come al momento dell’entrata a scuola..in effetti è un po cosi, il venerdi la scuola la si fa qui. Tutti i bimbi arrivano con gli insegnanti, con la divisa della scuola. E cosi dalle 8 e mezza a mezzogiorno viene eseguito tutto il reportorio musicale sacro.  A essere sinceri c’è da dire che se non sono le prove dei canti, c’è un funerale, un battesimo, una festa del patrono o della parrocchia da celebrare. L’importante è cantare, a scuarciagola, tutti insieme.
Ma il venerdi assume un valore un po’ diverso, forse perchè il venerdi rimane per me il giorno più bello della settimana, forse perchè poi c’è il weekend, forse perchè le voci bianche fanno sempre il loro effetto, forse perchè i canti qui hanno una carica incredibile. È impossibile non seguirli, e se dimentico per un attimo dove sono, finisco che mi commuovo quasi.
È buffo, le prime volte c’èra una sorta di moto di ribellione nella mia testa: tante cose da fare, da voler fare, e in tutto questo la musica è solo un fattore disturbo.. piano piano, imparando a riconsocere le canzoni, le parole, o forse solo lasciando un po’ indietro tanti dei miei “bisogna!”, mi sono ritrovata quasi senza accorgermene a seguire il ritmo. Non devo più neanche interrompere quello che sto facendo..canticchio o seguo la musica mentre batto i tasti sul computer. E sorrido.
Questa è l’altra faccia di una vita vissuta davvero in mezzo e sotto gli occhi della comunità e del quartiere nel quale vivi. È l’altro lato della medaglia dello svegliarsi di notte per i latrati dei cani giù in strada o del non riuscire ad addormentarsi per la musica reggeaton-malgascizzante che anima quasi tutte le serate. È l’altra faccia dell’essere apostrofata in italiano per strada (quando normalmente tutti i vasaha vengono presi in giro in francese) o dell'essere riconosciuta dalla signora da cui hai comprato i pomodori un mese fa e di cui tu non ti ricordavi bene neanche il volto. O del vedersi arrivare a casa la vicina che ti dice che il pane che avevi prenotato nel banchetto davanti a casa è già pronto e che bisogna andare a prenderlo subito perchè se no poi si secca..

sabato 23 giugno 2012

Per una volta buone notizie

Maggio 2012

Vengo da una settimana passata in giro per Tana alla scoperta e all'incontro con i centri scolastici che aiutiamo, lati più o meno belli. Vengo da una settimana in cui anche dall’Italia è stato tutto un susseguirsi di brutte notizie, il terremoto a casa, bombe, crisi.
Allora oggi voglio parlare di una bella notizia, di una bella storia. È un centro che aiutiamo da poco e che ha cominciato ad accogliere e dare un’istruzione ai bambini circa due anni fa, nella periferia di Tana, in quella che sembra già campagna profonda e dimenticata. Il tutto è nato da un’associazione che esiste da circa una quindicina d’anni di allevatori e contadini, che si sono messi insieme per darsi una mano con le formazioni, la produzione e la vendita dei prodotti.
Qualche anno fa una coppia di membri dell’associazione già anziani, ha deciso di usare un po’ dei soldi risparmiati per offrire un pasto settimanale, un bagno (e un taglio di unghie e capelli visto il problema dei pidocchi) ai bimbi in situazione difficile dalla zona: figli di prostitute o di prigionieri o semplicemente di genitori che restano fuori casa in cerca di lavoro o di qualcosa da mangiare fino a sera, bimbi che passavano le loro giornate in strada.
La signora si è accorta che il sabato, giorno della distribuzione del pasto previsto per le 11h 30, i bambini arrivavano sempre prima, non sapendo dove altro stare. Ha pensato allora di impiegare il tempo in modo più produttivo, e nell’attesa insegnare loro a contare e a scrivere i numeri, servendosi di canzoncine e filastrocche. La cosa è continuata e si è sviluppata. La coppia ha pensato di trasformare questo impegno saltuario in qualcosa di un po’ più organizzato, mettendo in piedi due sezioni della scuola materna, utilizzando i locali dell’associazione agricola, e cioè le vecchie stalle e pollai. Un anno fa è stata ottenuta anche l’autorizzazione per l’insegnamento elementare. Oggi il centro accoglie circa 520 bambini, dà loro un’istruzione di base e li prepara agli esami “ufficiali”, per la reinserzione nella scuola pubblica. Non vengono chieste tasse di iscrizione. Si fa economia su tutto, anche perchè di aiuti ce ne sono pochi e i bisogni (di cibo, medicine, bollette dell’acqua, libri e quaderni..) sarebbero tanti: un aiuto importante viene dai membri dell’associazione che si autotassano o danno una mano per produrre quello di cui c’è bisogno: banchi, grembiuli.. Gli insegnanti stessi sono i figli dei membri dell’associazione. E questo ha permesso paradossalmente di evitare l’interruzione dei corsi che c’è stata in quasi tutte le scuole pubbliche del Madagascar in seguito agli scioperi degli insegnanti.
Quando sono venuta in visita per il controllo, mentre le mie colleghe erano alle prese con magazzini, controllo dei viveri rimasti e distribuiti, coerenza dei calcoli etc etc, io sono stata “catturata” dalla responsabile del centro che mi ha raccontato tutta la storia della scuola, trascinandomi a vedere ogni angolo e raccontandomi (forse con più dovizia di particolari del necessario) delle difficoltà quotidiane, della solitudine in cui sono lasciati da parte delle istituzioni pubbliche, ma sempre con tanto orgoglio per quello che si è riusciti a fare.
Ho visto i banchi o le sedie in costruzione, della cui semplicità la responsabilie si è scusata (anche più del dovuto vista la situazione media dei centri che ho visitato). Ho visto l’ingegnoso meccanismo per il risparmio dell’acqua messo in piedi: al posto dei rubinetti sono state inserite tre bottiglie con l’acqua (che viene presa dai bimbi dal pozzo) e una con il sapone: i bimbi possono lavarsi le mani ma imparano a fare attenzione al consumo. Ho visto le pareti delle vecchie stalle dipinte con immagini dei cartoni animati dai membri dell’associazione. Sono entrata in tutte le classi (a volte si tratta di un unico stanzone diviso da tende)interrompendo le lezioni  e “costringendo” tutte le volte i bimbi ad alzarsi, fare i saluti di rito e ripetermi tutto quello che hanno imparato durante la giornata, comprese le famose filastrocche sui numeri,  tutto rigorosamente in francese – lingua in cui vengono tenute le lezioni, come ci ha tenuto a dirmi la responsabile, per evitare complessi di inferiorità ai bambini e dare loro un insegnamento di livello il più simile possibile a quello statale, per  quando e se riusciranno ad entrare nel sistema pubblico-.    Ero ben consapevole che molte delle cose che mi venivano dette e mostrate erano fatte apposta per colpire la mia sensibilità come quella di qualunque visitatore e catturare possibili finanziamenti, ma confesso che sono riuscite lo stesso a farmi sorridere e commuovermi.
La scuola resta isolata e la stessa responsabile mi dice che non sa quale sarà il destino di questi bambini se, anche superati gli esami, nessuno potrà più pagare le tasse scolastiche per loro. Ho provato imbarazzo quando mi sono sentita ringraziare per il nostro-mio lavoro, per quello che facciamo, per l’aiuto che diamo, mentre mi sembra di non fare e non poter fare praticamente nulla. Mi sembrava bello poter almeno raccontare quello che ho visto.

lunedì 30 aprile 2012

EDUCAZIONE PER TUTTI



Uno dei progetti di cui mi “occupo” qui in Madagacar è un progetto di aiuto alimentare fornito a diversi centri scolastici ed educativi (attraverso il sostegno alle mense scolastiche). In collaborazione con molti di questi centri si è aperto anche un progetto di alfabetizzazione e di lotta all’abbandono scolastico.  Una parte del lavoro, quella che riguarda scartoffie e contatti si svolge chiaramente in ufficio. Ma c’è una bella fetta di lavoro, che è quella che preferisco, che invece si svolge “sul campo”.  È quella parte di lavoro che mi porta a partire alla scoperta degli angoli nascosti di Tana con le mie colleghe malgasce per andare a visitare a sopresa i vari centri, per verificare se i viveri arrivano, se vengono ben gestiti e soprattutto ben distribuiti, se le attività scolastiche dichiarate vengono realizzate. Già solo in queste prime settimane mi è capitato di vedere di tutto, e non sempre in senso positivo. Spesso le attività scolastiche dichiarate non vengono messe in piedi, lo stockaggio dei viveri non rispetta le norme sanitarie minime (per imperizia o per mancanza degli strumenti necessari), e i viveri non vengono distribuiti come dovrebbero o nelle giuste quantità. Spesso mi sono ritrovata a visitare certi centri con certi locali annessi e domandarmi come sia possibile chiamarli “scuole”.  
La situazione scolastica in Madagascar è disastrosa. Un tasso di abbandono scolastico atissimo, soprattutto dopo la crisi del 2009 che ha spinto molti bambini (o le loro famiglie)a lasciare la scuola per cercare un lavoro. Molti ragazzini si ritrovano adesso semi alfabeti ma avendo già superato l’età per avere accesso alla scuola pubbblica primaria e sono quindi destinati a rimanere senza educazione per tutta la vita, e senza prospettive di migioramento. Sono nate molte scuole non statali che prendono in carico questi ragazzi, con corsi appositi pensati per preparli agli esami di stato o per dare loro una formazione professionale, ma c’è un bisogno costante di finanziamenti che non sempre si trovano. Ad aggravare la situazione ci si mette spesso l’inutile competizione che si scatena tra il sistema pubblico, geloso di finanziamenti e tassi di successo degli alunni, e quello parastatale. In tutto questo, lo stesso sistema pubblico è ormai paralizzato dalla protesta degli insegnanti che scioperano da mesi per il mancato pagamento degli stipendi. A fare le spese di tutto questo sono i bambini.
Quello che io vedo e sento girando per la città è solo una minima parte di una realtà più vasta e complessa. Eppure in un quadro che a volte mi fa davvero cadere le braccia c’è sempre qualcosa che riesce a stupirmi, c’è qualcosa che riesce a farmi sorridere e sperare: come quando vedo fare lezione anche dove non ci sono aule, semplicemente montando dei tendoni. O come quando vedo scritti alla lavagna i diversi modi in cui bisogna usare il sapone per lavarsi e pulirsi. O come quando i responsabili di alcuni centri professionali mi raccontano dell’apertura del nuovo corso di cucina là dove non c’è una cucina, orgogliosi del fatto di essere almeno riusciti a montare dei fornelli “a cielo aperto”. O come quando assisto alle riunioni degli alfabetizzatori che provano ad organizzarsi e discutere insieme dei loro problemi ( che a volte sono rappresentati dalla difficoltà di capire e spiegare una divisione..). Forse sono una grande idealista ma in questo mondo alla rovescia si riesce sempre a vedere un tentativo di costruire qualcosa là dove non c’è quasi niente. Non ho risposte, non penso assolutamente che la mia presenza riuscirà a risolavere tutti i malanni del Madagascar. Ma mi piace pensare di raccontravi un po’ di quello che vedo.

domenica 15 aprile 2012

TANDONAKA


14 aprile
Per oggi nessuna riflessione troppo impegnativa..solo qualche consiglio musicale direttamente dal Madagascar. Capisco i pregiudizi, soprattutto dopo i miei racconti sulla predilizione dei malgasci per basi musicali di dubbio gusto, ma vi assicuro che a Tana la scena musicale può riservare molte sorprese. Ieri sera un po’ per caso e con diverse perplessità  siamo finiti in un fumoso barettino dal nome esotico Piment Café famoso per le serate live. Già pronti sul palco, come da programma, i Mami Bastah.  Mami Bastah in realtà è il cantante, accompaganto dai suoi musicisti. Intorno a noi quasi nessun europeo, a parte uno sparuto e un po’ intimorito gruppetto di francesi. Invece, tavolate di malgasci con tanta voglia di far festa e cantare.
Si è aperto il concerto, al grido di “Tandonaka!”. Tandonaka è un genere musicale tradizionale malgascio, tipico della regione di Antsirabé che i Mami Bastah hanno rispolverato e portano in giro per il paese. Sonorità africane, parole malgasce, ma anche armonica e tastiere e bassi e batteria. Una bellissima capacità di tenere banco, di intrattenere e farsi intrattenere dal pubblico. Testi che divertono ma che tra le righe infilano anche commenti taglienti sulla situazione politica malgascia. Il pubblico partecipa, interloquisce, interrompe abitualmente i musicisti. Più che un concerto sembrava una chiacchierata da amici, e tra gli amici c’eravamo finalmente anche noi.
Mentre ascoltavo, o forse dovrei dire partecipavo, mi sono ritrovata come spesso mi accade qui, a non sapere dove sono, smarrita tra atmosfere e suoni che si mescolano, che mi rimandano a paesi e luoghi a migliaia di km l’uno dall’altro. L’idea di poter essere benissimo in una qualche birreria emiliana, o in qualche localino nantese..e poi dopo un attimo una frase, un gesto, un sorriso che mi ricordano che sono davvero qui in Madagascar, e che non potrei essere in nessun altro luogo, proprio qui, anche se dalla parte opposta dell’universo che ho sempre conosciuto. È strano. E bellissimo. C’è qualcosa in più. Durante la serata mi sono ritrovata ancora una volta a considerare come sia difficle vedere i mille volti di una realtà. Il Madagascar, ma non solo. Come sia facile a volte ridurre, semplificare quelle realtà a dei clichès. Venendo nel “Terzo Mondo” si è portati a pensare subito e solo alla povertà, alla miseria, al bisogno del nostro aiuto. Tutto questo esiste. Ma esiste anche qui tutto un mondo fatto di animata vita culturale, possibilità economiche più elevate, concerti, boutiques per un pubblico ristrettissimo . . . un mondo oltretutto che va avanti benissimo anche senza di me. Una serata è niente per farsi un’idea di questo paese. Antananarivo non rappresenta tutto il Madagascar, ma ne fa comunque parte. Migliaia di realtà contraddittorie e stridenti è vero, ma che esistono e coesistono. E non ho voglia di aprire gli occhi solo su alcune.
Alla fine, naturalmente abbiamo comprato anche un cd dei Mami Bastah, contrattando, qui come al mercato, sul prezzo. E in ogni caso imparare e tradurre i testi sarà un buon esercizio di malgascio.
Se ne avete voglia cercateli in internet, i Mami Bastah. Magari non vi piaceranno. Magari invece riesco a trasmettervi un po’ dell’atmosfera del Piment Café. Uno fra i mille diversi imput che ricevo stando qui.

mercoledì 11 aprile 2012

Venerdi Santo e affini


8 aprile

Settimana santa. Espressione che rende abbastanza bene i miei ultimi giorni qui. Ho assistito a tutti i riti che la liturgia cristiana prevede per questa settimana, paradossalmente più di quanto abbia mai fatto in Italia dove, tra sessione d’esami straordianaria e traversate in treno-aereo-macchina mi ritrovavo ad essere a casa a momenti solo la sera prima di Pasqua. Convinzione personale certo, ma anche perchè se sono qui è per vivere con questa comunità, per quello che è possibile, con i suoi rtimi, la sua socialità. Ed è vero che qui la dimensione della parteciazione popolare alla messa è qualcosa che in Italia abbiamo scordato da decenni. La partecipazione stessa acquista una valenza sociale che da noi non dà neanche l’aperitivo nel bar più chic della città. E mi sembrava giusto provare ad esserci anch’io in tutto questo, superando l’imbarazzo di entrare in chiesa accompagata da mille occhi puntati addosso o le barriere linguistiche.
Confesso, non è stato tutto cosi facile come avrei pensato, non tutto cosi bello. Qualcosa oltre lo stereotipo esotico che a volte aleggia intorno all’idea di messa africana. Ho fatto fatica. Ho fatto fatca a reggere a celebrazioni di 4 ore, a sentire canti che possono durare 25 minuti l’uno (non è uno scherzo ) e che sono sempre accompaganti da immancabili tastiere che inseriscono obbligatoriamente basi stile disco music o mazurche emiliane, (considerate credo il meglio della tecnologia e della raffinatezza qui in Madagascar). Ho fatto fatica ad accettare rituali che secondo la liturgia italiana post concilio non hanno più valore, baci della croce, saluti lunghissimi, interminabili prediche intervallate da battute che non posso ancora capire e forse non capirò mai, 2-3-4 raccolte di offerte per la parrocchia-il prete-i chirichetti-l’associazione delle mamme.. Ho sentito la mancanza del silenzio occidentale, della riflessione, di un momento di raccoglimento personale e solitario. Ho sentito la mancanza forse delle atmosfere da venerdi santo di gucciniana memoria. Ho fatto fatica a trovare un senso in tutto questo. Ho fatto fatica a non perdere le mie convinzioni personali. Venerdi santo stavo per mollare e uscire dalla chiesa, lo confesso. Mi sentivo davvero fuori posto. Poi la notte di Pasqua sono tornata. E c’è stato un momento in cui mi sono commmossa. È stato durante il momento della pace, che qui in Madagascar viene fatto prendendosi tutti per mano e cantando e danzando con le mani unite e sollevate.  E anche i malgasci che mi guardano con diffidenza sono “costretti” a prendermi la mano. Io ho stretto forte la mano dei miei vicini e ho cercato di far sentire il mio essere qui. Forse è solo suggestione, ma in quel momento anche lo scetticismo è stato messo da parte. E sono passati in secondo piano anche le tastiere, le basi musicali anni 80. E nonostante la nostalgia di casa, che si fa più forte in questi momenti di festa, mi sono sentita a casa anche qui.
Una casa chiassosa, incoerente, che ride e canta pur non avendo niente, che non riesce a farsi le mie paranoie sul futuro e sul senso della vita perchè il presente è già troppo buio, una casa che continua a scuotermi e rivoltarmi come un calzino.
Buona Pasqua a tutti

martedì 3 aprile 2012

Taxi Be


Ogni paese, ogni città ha il suo mezzo di trasporto per eccellenza. La macchina, la metro, che in Francia cambia misteriosamente sesso, il taxi, la bicicletta, la gondola. Per il Madagascar è il taxi be. Furgoncini sul modello del Ducato o appena più grandi che vengono accessoriati con due incredibili file di poltroncine e scarrozzano in giro per il paese persone, galline, biciclette, pacchi. Ci sono taxi urbani per muoversi in città, ma anche quelli “extra urbani” (i famosi taxi brousse) che collegano con epiche traversate una parte all’altra del paese. Naturalmente ce ne sono di ogni colore, blu, rossi, gialli, bianchi. Il tratto comune è la quantità incredibile di passeggeri che riescono a caricare: oltre all’indicibile incastro dei seggiolini, tra le due file vengono all’occorenza inserite assi di legno per aumentare i posti disponibili, per non dimenticare la gente che resta appesa dentro solo per metà. Si entra dal portellone posteriore, quasi in corsa, su “accettazione” di una sorta di controllore che decide se lo spazio vitale è sufficiente o no. Una volta a bordo, durante il viaggio viene richiesto il prezzo del biglietto. Non mi capacito ancora del come ma tutto si regge su un sistema efficientissimo: il famoso controllore dell”ingresso dal retro” ad un certo momento comincia a chiedere il prezzo della corsa, 300 ariary. Da ogni parte del taxi cominciano ad arrivare soldi che vengono spinti verso il fondo del mezzo grazie ad un collaborativo passa mano. Non si capisce bene da dove vengano i soldi e quanti biglietti servano a coprire. La gente spesso ha pezzi più grossi e paga per 2, 3, 4 altri passeggeri indicandoli a dito. Con mio sommo stupore tutti pagano e tutti ricevono ancora più straordinariamente il proprio resto, sempre attraverso il passa mano. Sabato sono andata in taxi be per raggiungere il mercato di Analakely. Un viaggio incredibile. Tutti stipati come maialini, le ginocchia che si toccano, davanti, dientro, di fianco. La musica della radio a tutto volume e tutti i passeggeri che cantano. I taxi be sfrecciano per le strade di Tana schivando pedoni, biciclette, carretti, buoi, altri taxi be rivali. Confesso. Subito ero abbastanza rigida, no rigidissima, il contatto umano ravvicinato mi dava fastidio e strideva con le  convenzioni sociali a cui sono abituata. Mi chiedevo se sarei mai arrivata a destinazione. Credo di avere chiuso gli occhi in una o due occasioni. Piano piano mi sono lasciata andare, ho smesso anche di accorgermi che la gente mi sfiorava, no mi urtava anche senza troppo riguardo. Mi sono “goduta il viaggio”.  Al ritorno, durante il viaggio verso casa per radio hanno passato Bed of roses di Bon Jovi. L’ho cantata tutta.

lunedì 2 aprile 2012

Rientro a Tana


Lunedi sera sono rientrata a Antananarivo dopo circa tre settimane a Ambositra. E ho capito che l’impressione che mi ero fatta un mese fa era solo un centesimo di quello che ho colto in questi (sempre) pochi giorni, che sarà ancora un centesimo di quello che potrò mai cogliere.
Girando in macchina, in taxi be, a piedi sono sempre con il naso all’insù e gli occhi ben aperti per catturare tutto quello che posso di questa città, e resto stupita ogni istante. Tana centra ancora meno di tutto quello che ho visto finora del Madagascar con l’idea di Africa che avevo. Non è una città africana. É un mix incredibile di contaminazioni e culture e tradizioni diverse. È costruita tutta sui colli come Roma, è tutto un sali e scendi di stradine e scale. Le case hanno il tetto spiovente che mi ricordano cosi tanto certi villaggi inglesi o francesi, segno della colonizzazione che resiste alla storia. Passeggiando per la  città vecchia, che dall’altro domina il resto dell’insediamento, sembra di essere davvero di essere nel Vecchio Continente, con il palazzo della regina e quello del primo ministro fatti da architetti europei e chiesette protestanti e cattoliche come neanche in Irlanda, e cuffi d’erba e sentierini che sembrano presi dai borghi toscani. Ville protette da altissimi muri e filo spinato accanto a catapecchie. E da lassù guardi in basso e hai una vista incredibile. Vedi gli agglomerati di case sparsi sullle varie colline verdissime, e in mezzo le risaie dove vedi luccicare l’acqua. Vedi lo stadio e il lago Anoussi, proprio nel mezzo di uno dei quartieri più centrai di Tana, un lago a forma di cuore, con in mezzo una statua fatta sul modello della Statua della Libertà. Intorno camminamenti pedonale in mezzo al verde e parchi che ricordano certe immagini newyorkesi. Di fronte a te, lungo il dorso di altre colline, vedi le baraccopoli di Padre Pedro. Ci sono vedute, scorci che assomigliano alle campagne cinesi. Altri a pezzi dei nostri borghi medievali. Altri ad alcune foto di città azteche. Altri a villaggi del Nord Europa con le casette affiancate tutte dai diversi sgargianti colori.. Quando arrivi a Analakely, la zona del principale mercato della città, camminando in mezzo a  banchi e bancarelle invece ti ricordi che sei in Africa.. anche se poco dopo inzia il viale che ti conduce alla stazione dei treni appena restaurata che sembra La Gare d’Orsay.
È vero,  a volte ti gira la testa..la gente ti urta, le voci si mescolano, nessuno chiede permesso però davvero c’è tantissimo da imparare e conoscere, una storia politica, una cultura, un modo di vivere che ti costringe sempre a rimetterti in discussione, ti provoca, ti fa venire voglia di restare qui per scoprire qualcosa ogni giorno.

giovedì 29 marzo 2012

I colori


19 Marzo
Lo so che può sembrare una frase scontata, banale, e prima di venire qui forse mi ero anche ripromessa di non dirla mai. Ma davvero, quello che in questo mese scarso passato in Madagascar continua a stupirmi tutti i giorni, ogni istante, sono i colori.  Parlare di Madagascar in realtà è riduttivo perchè basta spostarsi di pochi chilomentri per cambiare completamente paesaggio, vegetazione, clima. Sembra di attraversare mille paesi diversi. L’Altopiano a più di mille metri di altitudine, la costa, il mare e i tropici, la foresta, il deserto, le cascate. Ma ovunque, la stessa impressione. Che sia tutto più brillante, accecante quasi. Il blu del cielo, il verde delle foglie e degli alberi, la luce del sole, anche il rosso della terra e del fango.. Il grigio dei giorni di pioggia quello no, è ancora abbastanza simile a quello che conosco dall’Italia e dall’Europa, ma qui il tempo cambia cosi velocemente che anche in mezzo alla pioggia un raggio di sole luminossimo è capace di squarciare il cielo e farmi sorridere. Viste che tolgono il fiato e ridanno entusiasmo. Soprattutto quando mi rendo conto che non si tratta di una bella cartolina o di un fermo immagine in un programma di viaggi, ma che io ci sono dentro davvero.

martedì 27 marzo 2012

Al mercato


Oggi sono andata al mercato da sola per la prima volta. Non c’è niente da ridere. Ora chi mi conosce, sa della mia scarsa dimestichezza e propensione per le folle di gente, piazze di mercato, conversazioni animate su prezzi e quantità, compro e vendo..e soprattutto la mia scarsa capacità di riuscire a spuntarla. Qui in Madagascar tutto questo è una cosa serissima. Un’arte. Il vivere quotidiano a cui non puoi sfuggire. Una cosa talmente seria che il mio insegnante di malgascio Marcel ci ha speso un’intera lezione sopra con tanto di esempi sui prezzi, simulazioni di domande e risposte, e a fine lezione, incurante della mia faccia sconvolta, mi ha trascinato tra i banchi di carne e verdura e mi ha detto “ora prova tu”, anche se l’affare l’ha poi concluso lui. Oggi è stata la prova del nove: comprare 5 kg di mele e 3 kg di zucchero per fare della marmellata. C’è tutta una procedura da seguire : prima saluti e chiedi il prezzo. Il venditore spara una cifra che è sempre superiore al prezzo reale, soprattutto se vede che sei un bianco che pensa di poterti fregare giocando sul cambio stracciato. A quel punto, dopo l’esclamazione di rito “lafo be!” (molto caro!) cominci ad abbasare il prezzo e si va avanti a acontrattare fino a quando non si raggiunge un accordo soddisfacente per entrambi. Il prezzo di partenza di un kg di mele oggi mi è stato fissato a 2000 ariary. Una follia. Ho provato ad entrare nella parte, mi sono messa e contrattare in malgascio ( confesso, mi ero scritta un po’ di esempi di cifre su un foglio). Alla fine, orgogliosissima, ho portato via le mie mele a 800 ariary al kg, il prezzo giusto. Volete sapere a quanto corrisponde in euro? 1 euro: 2800 ariary circa. A voi la proporzione.

Mandio ny vary


6 marzo Ambositra
Nessuno mi aveva mai detto quanto potesse essere difficile pulire il riso. L’ho scoperto oggi sulla mia pelle. Il Madagascar è il maggior consumatore mondiale di riso, quasi tutto il riso viene dalla produzionale nazionale visto che sembra che i malgasci non amino altre qualotà di riso straniere. In casa cerchiamo, nei limiti del possibile, di seguire le abitudini locali: il riso lo si compra al mercato, sfuso, in sacchi da diversi kg. E prima di cuocerlo va pulito e lavato. Vanno tolti i resti di erbette, i sassolini, le foglioline che racchiudono i chicchi, certi strani pallini neri che non so cosa siano. Poi va sciacquato e poi va messo a cuocere in acqua, (il doppio del riso versato). Mi sono offerta di prepararlo io, visto che ero a casa. Stamattina c’era un sole stupendo, dopo giorni di pioggia ininterrotti. Un sole di una luminosità strana, a cui qui nessuno sembra dare troppa importanza ma che io non ricordo di avere visto spesso. Tutta baldanzosa mi sono seduta sulla panca davanti a casa, con il mio piattone di rame in cui avevo versato tre kapokie di riso e mi sono messa all’opera. Erano le 9 e 45. Alle 12 quando sono tornate a casa due delle coinquiline non avevo ancora finito. Ora, va bene che posso essere una perfezionista ma credo davvero di dovermi fare delle domande. Per pranzo gli altri, molto comprensivi, hanno ripiegato su una più veloce e meno malgascia pasta al pomodoro. Io ho finito di pulire il riso nel primo pomeriggio. Dovevo finire quanto iniziato.  Non avrei mai pensato di passare un’intera mattinata a preparare qualcosa da mangiare. Dedicare tempo a cosa che a casa dò per scontate o inutili. Ma ci sono tante piccole cose, tanti particolari che mi stupiscono ogni giorno. Il gallo che comincia a cantare alle 5 del mattino con un suono che assomiglia davvero allo stereotipato chicchirichi. Lo svegliarsi di soprassalto verso le 4 udendo un rumore come di passi sul tetto, e sentirsi dire che no questa volta non sono i ladri ma sono solo le persone che cominciano a muovere i loro carretti... Suoni colori e odori che io non conosco e a cui imparo ad abituarmi piano piano.

sabato 24 marzo 2012

Madagascar prime impressioni


2 Marzo




Sono arrivata da poco più di tre giorni e tutto è ancora cosi strano. Sono arrivata a Antananarivo il 28 febbraio notte. Ad accogliermi, oltre a tanti volontari di RTM con cui lavorerò e vivrò, una pioggia incessante, che stride un po’ con l’immagine che ci si fa dell’Africa. Una pioggia a cui mi sto abituando in fretta. Siamo alla fine della stagione delle piogge e soprattutto qui sull’altipiano, a Antananarivo dove sono rimasta due giorni  ma anche ad Ambostra da dove scrivo non passa quasi giorno che non cada almeno un po’ di acqua. Fuori, un altro mondo. Che niente ha a che vedere con la mia idea di ordine, di città, di “ciò che dovrebbe essere”. Niente a cui sia abituata o che mi ricordi qualcosa di già visto. Un intrico ininterrotto e serrato di casupole, botteghe, carretti, macchine, taxi, mucche e pussypussy (i risciò malgasci). Gli stili si mescolano e cosi i colori, l’azzurro il giallo e il rosa pastello con il rosso del fango. Per strada una quantità incredbile di gente e mercanzie. Bugigattoli che vendono tradizionali leccornie fritte e bisunte, banchi di frutta, pesce, carne, riso e legumi.  Origini indiane, pachistante, africane si mescolano, guardano i volti cominci a distiguere i gruppi etnici, Merina, Betsileo, Antimoro..tutti vestiti in un modo incredbile per un europeo ma senza il minimo imbarazzo..poi con la pioggia ancora di più..c’è gente che esce in accappatoio, altri con maglioni altri con la canotta..quasi tutti escono con la cuffia da bagno, sopra la quale molti si mettono i cappelli, di tutte le foggie, che sembrano essere il must in madagascar. Mosche. Gli odori più diversi si mescolano e danno alla testa, soprattutto per chi non è abituato. Sono costretta a ribaltare i miei schemi, ad aprire gli occhi e le orecchie con umiltà . Per il momento credo che la più grande lezione sia il provare a uscire da me stessa.

venerdì 24 febbraio 2012

Eccoci


La partenza sta acquistando contorni più definiti, il visto sul passaporto, l’orario e il numero del volo. Nella mia testa invece continua a mancare di forma e consistenza precisa. Tanta incoscienza e confusione.
Ma in questa partenza io non ci ho mai creduto tanto come adesso.  Credo davvero nel mettersi in gioco.  Credo davvero alla scelta della non violenza, che non è solo l’alternativa ad un servizio militare che non esiste più, ma che per me rappresenta il “no” o almeno “l’aspetta!” ad altre forme di violenza, percorsi e scelte date per obbligate o scontate ma nelle quali non mi sentivo a mio agio. Credo all’importanza dell’incontro con gli altri, diversi da me per vissuti, aspirazioni, ideali, valori. Gli altri mi hanno cambiato e trasformato, ma mi hanno anche aiutato a capire e rafforzare le mie stesse aspirazioni, ideali, valori. E questo continua ad accadere.
Forse la realtà giù mi smentirà. So che ci saranno fatiche non da poco, già intraviste in questi mesi, fatiche di tempi non più miei, di spazi non più miei. I corsi di formazione ci hanno steso, é salita la paura di non essere preparati, di non essere all’altezza, di non avere capito niente di quello che ci aspetta.
Eppure in tutto quello che ho detto sopra cotinuo a crederci. Mi sembra di essere più giovane di quanto non mi sia mai sentita, più idealista di quanto non sia mai stata. E non è una brutta sensazione. Accetto finalmente di non sapere già tutto, di non avere tutte le risposte, di non sapere cosa sarò e cosa crederò domani. E accetto di poter solo provare a costruire me stessa e quelle risposte che tanto ho cercato giorno per giorno, anche fuori dagli schemi. Come mine vaganti, per citare un’espressione cara alla mia amica Tjasa. Come mine vaganti ci muoviamo cercando risposte e cammini nei quali ritrovarci, ci tocchiamo a vicenda, ci influenziamo tra noi e ci facciamo influenzare dalla vita. Abbiamo un potere enorme, e un’enorme responsabilità. Io ci credo.
Ho fatto già tante partenze “in solitaria”, viaggi anche bellissimi ma nei quali mi sono ritrovata a soffrire il non poterli condividere, il non poterne parlare davvero, il non poterli vivere insieme.
Chi parte non è migliore o peggiore di chi resta, e l’ho capito solo dopo tante partenze e ritorni. Ognuno sceglie semplicemente  la modalità del proprio vivere e cerca di portarla avanti.  L’unico vero rischio è che le vite continuino a scorrere parallele, senza incontrarsi, senza punti di contatto.
La scelta del blog, che farà sorridere tante delle persone che mi conoscono, è un po’ uno stentato e donchichottiano tentativo di reazione a questo,  per provare a restare in contatto, provare a crescere insieme, e perchè no, provare a informarci ed educarci anche fuori dai canali tradizionali sfruttando i nostri sensi e la nostra curiosità.
Spero non  sia solo un desiderio mio, ancora prima spero non resti solo un desiderio.