Ho « incontrato» Bangkok per la prima volta nel 2017. Mai città mi era sembrata piú sfavillante, scintillante, modernissima, velocissima, città di vetro e grattacieli. Arrivavo dritta dagli altopiani della Papua Nuova Guinea e il confronto era stato choccante. Ero rimasta rapita. Grazie ad un amico tailandese avevo intravisto segni di un’altra Bangkok, piu lenta, tradizionale, fatta di incensi, di legno, di case basse, di catapecchie, di un passato che sembrava non volersi far relegare in un angolo, ma non avevo avuto modo di approfondire. Solo qualche giorno di permanenza. Mi era rimasta nel cuore la sensazione di una città incantata, che avrei voluto conoscere meglio.
Siamo tornati a Bangkok a maggio 2021. All’arrivo,
un gruppo sparuto di passeggeri occidentali dai profili alquanto peculiari.
Oltre a noi, alcuni uomini in tenuta kaki, dal possibile profilo militare, o
mariti di donne tailandesi, pochi altri civili probabilmente impiegati per altre
ONG ; il resto dei viaggiatori tailandesi. Nessun « turista », non la folla di
vacanzieri australiani o europei in infradito e corone di fiori, pochi gli
uomini d’affari. Un incontro totalemente diverso dal primo. Avvenuto attraverso
una fitta rete di mascherine, vetri, passaggi obbligati dentro ad un areoporto
blindato, un sistema efficientissimo di controlli che ci ha accompagnato dalla
discesa dall’areo, attraverso le formalità mediche e amministrative, fino alla
macchina dai vetri oscurati che ci ha portato dritti in uno hotel approvati in cui passare i 12 giorni di quarantena. Non ho neanche fatto in tempo ad annusare l’aria.
Le due settimane di quarantena sono state una tortura, per me che necessito di aria e movimento. Ma soprattutto per la mia “fame” di immergermi nella vita della citta. Uscita, ho trovato un città molto diversa dal mio ricordo. Chiuso tutto, musei, palazzi, bar, ristoranti, karaoke, centri per massaggi e sale da the. Era come se la città fosse il fantasma di se stessa, o di quella che avevo intravisto nel 2017. Era come se non ci fosse piú posto per la Bangkok di qualche anno fa. Una Bangkok in cui potevano esistere posti come un ristorante che serve solo « sea food and champagne”. Oggi naturalmente chiuso.
Hanno chiuso i parchi, e allora per poter continuare a camminare e non chiudermi in casa, esaurita l’esplorazione delle strade del mio vicinato (pericolossime per il traffico – quello non cala- e inquinatissime), mi sono messa a camminare sempre un po' piu lontano, per scoprire angoli sempre nuovi della città. Cammino lungo i canali di questa Venezia dell’Asia, dove, come a Venezia, l’odore dell’acqua stagnante si mescola a quello del sapone da bucato dei panni messi a stendere, con in piú l’aggiunta del profumo di spezzatini di carne dalla dubbia origine e verdure al cocco.
Cammino per le strade trafficate,
un rischio che mi permette di scoprire sempre nuove sfumature della città e dei
suoi abitanti. Guardo le donne e gli uomini cucinare in strada, tagliare il
cocco, preparare gli spiedini di pesce messi a cuocere sulla brace o friggere
nell’olio caldo mentre ci sono 40 gradi e un’umidità al 80%, infilo spudorata la testa dentro le bottegucce e i magazzini. Gli odori si mescolano. L’odore del
pesce affumicato si mescola a quello del sangue della carne di maiale, a
quello delle crèpes calde, dei dolcetti al cocco e dei frangipane. I colori
pure, il verde scintillante della vegetazione, il giallo intenso delle collane
di fiori per le offerte votive, al grigio minaccioso di questo cielo da
stagione delle piogge. Mi sento un po' a
casa. Mi torno a sentire « viva » perchè mi sembra di ritrovare la
mia umanità dopo mesi di « telelavoro », dove mi sono sentita piu
simile ad una macchina. Mi specchio finalmente negli occhi di persone come me,
e non in un computer.
Forse è vero che mi sono persa la Bangkok degli « anni ruggenti ». Ma forse non è cosi male. C’è una poesia antica che forse era andata un po’ perduta e che adesso è piú visibile. Mi fermo davanti a scene che sembrano venire da altre epoche. Una signora che lava l’asfalto davanti alla porta della sua casa/tugurio con il mocho insaponato. Covate di gattini di qualche settimana che scorrazzano per le strade. Giovani in doppio petto o tailleurs d’ufficio che mentre vanno (andavano – prima delle ultime restrizioni) in ufficio si fermano ad accendere gli incensi nei tempietti dei cortili delle case, signore che danno da mangiare agli scoiattoli accompagnando il gesto con una preghiera salmodiata. La ressa davanti alle biciclette che espongono i biglietti delle lotterie.
Ho addirittura incontrato un indovino seduto in strada e pronto a leggermi le carte. Gli indovini di Terzani. Forse se lui lo sapesse, gli scapperebbe un sorriso compiaciuto.Allora forse l’unica cosa che davvero mi dispiace è l’impressione di poter solo « assaggiare » questa città e la sua storia. Mi aggrappo a questo assaggio, aspettando le prossime portate.