venerdì 25 aprile 2014

Consigli di viaggio - Kwenda Iringa




Ultima settimana in Tanzania. C’è cosi tanto che non ho visto, che non so. Che a volte rischia di fami dimenticare tutto quello che invece ho avuto la fortuna di vedere, di incontrare, di conoscere. La famosa questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Con le ultime briciole di forza che ancora mi restano ho sfruttato i giorni di Pasqua per un viaggetto al sud, per vedere un po’ di quella Tanzania profonda, cosi lontana dalla costa e dal mare di Bagamoyo di cui in questi mesi ho sempre sentito solo parlare. IRINGA. Un nome che mi è finito nelle orecche cosi tante volte in questi mesi. Una parola, un posto infilato in discorsi con amici e conoscenti, con persone incontrate per caso in questa mia Tanzania che è stata tutto un incontro casuale.

E cosi sono partita. Nonostante i ponti crollati, la strade interrotte, i discorsi catastrofici di amici che mi sconsigliavano di prendere i mezzi pubblici in questa stagione delle piogge che nelle ultime settimane ha messo ai ferri corti il paese, facendo morti e sorprendendo i pacifici Tanzaniani. Sono partIta con Neema, la mia amica coreana, e Eva, la sua capa, sempre coreana. Sono partita giovedi pomeriggio, alla volta di Dar es salaam.Ho preso il dala dala sotto un sole che era di nuovo riapparso quasi a smentire i miei dubbi e ritrosie. Viaggio perfetto, sono arrivata a Dar in 2 ore pulite e mi sono messa ad aspettare Neema che tornava da Zanzibar, al distributore di fornte alla stazione degli autobus. Punto di osservazione perfetto. Mi guardavo intorno, serena, sotto un cielo che cambiava svelto colore passando in rassegna tutte le gradazioni dall’azzurro al cobalto al blu intenso della notte africana, con striature rosate, violacee e gialle. E poi è scesa la notte, guardavo la gente correre a casa, e le luci che piano piano si accendevano, dentro le case, dentro le botteghe, sugli autobus stipati in vista del ponte di Pasqua. E nell’aria quell’odore indefinibile di mille sapori che per me è sempre odore di buono qui in Tanzania. Odore di patatine fritte, che ho imparato a cucinare davvero solo qui, di mais cotto alla brace, di dolcetti al sesamo venduti in pezzi di giornale. Odore di vita, di donne che cucinano, di gente xhe vive insieme, che viaggia insieme, mani che si toccano, sguardi che si incrociano, in strada, sempre. Dopo una notte di piani di viaggio rapidi e scherzosi con Neema e Eva, e un sonno che è stato troppo corto, alle 5 e mezza del mattino eravamo già su un bajaji , per correre a cercare un autobus per Iringa. L’arrivo a Ubungo, la stazione  di Dar da cui partono le corriere per tutto il paese è sempre qualcosa di suggestivo. Per me è la rappresentazione in terra dell’inferno. Nell’oscurità prima dell’alba ancora di più. La ressa, le grida, le valigie che ti cadono addosso, i  bambini che ti cadono sui piedi, le spinte, e adesso anche il fango. Un’umanità viva e pulsante, compatta e densa come un mare di petrolio che avanza indifferente a te, ai tuoi pensieri, ai tuoi piani. Dopo contrattazioni infinite siamo riuscite a prendere posto su un autobus sgangheratissimo che sarebbe partito dopo 2 ore. Mi sono seduta vicino al finestrino e nell’attesa mi sono messa a guardare fuori: Dar si sveglia, il cielo diventa chiaro. Ci sarà il sole.  Donne in camice grigio spazzano nel fango con grandi scope di legno  e raccolgono la sporcizia con palette di plastica piene di crepe, riempiendo enormi cestini di cemento. Un esercito di donne in camice bianco e foulard dello stesso colore in testa cominica a passare intorno agli autobus vendendo pane in cassetta e tortine. Il mese scorso erano i biscotti al cioccolato. Vendono tutte le stesse cose. Le più fortunate, le più svelte, riescono a rifilare un pacco di pane o un sacchetto di tortine ai viaggiatori (1000 scellini a sacchetto per 10 tortine, 50 cent..). Le ritardatarie si accontentano di mostrare in silenzio i sacchi di plastica.
I viaggiatori salgono  alla spiacciolata e l’autobus si riempe di risate e parole e abbracci e mani tese a passarsi borsoni di pastica e zaini usati. Partiamo. Uscire da Dar è come sempre complicato. Passiamo un’ora incollonnati. Macchine e autobus di tutte le forme e misure. Tra noi, passano svelti i venditori ambulanti, nel caso tu non fossi riuscito a rifornirti prima di ogni genere di prima necessità. Giornali, occhiali da sole, torce, e poi biscotti, ancora tortine, acqua e soda. E poi via, verso sud. Il viaggio è meraviglioso. Tutto scintilla sotto un sole pulito e fresco. Kibaha, Chalinze, posti che conosco per i monitoraggi di progetto ma che oggi hanno un sapore un po’ diverso, il sapore dei saluti. Il sapore dei ringraziamenti. Per essersi fatti conoscere e scoprire da me. E poi via ancora verso Morogoro. Compaiono le prime colline e montagne dietro il profilo delle palme. Verdissime.  Uno spettacolo bellissimo. Arrivare a Morogoro è entrare dentro il caos delle città mercato, coloratissime, vive. Banchi di frutta e verdura che a Bagamoyo non vedo da dicembre, per via delle piogge. File di pomodori, patate, cavoli, ma anche manghi, avocadi, cocomeri, ananas fuori stagione. I venditori ambulanti battono forte contro i portelloni dell’autobus per attirare la nostra attenzione. Arachidi, noccioline, ancora gli intramontabili biscotti e tortine, pane in cassetta, pannocchie bollite, sambosa, cipolle vendute in sacchettini di plastica, acqua e succhi e occhiali da sole. Chiedo delle noccioline e il ragazzotto invece che darmi il resto mi rifila due pacchetti non richiesti al posto di uno solo. Dopo 8 mesi riesco ancora a farmi fregare. Il viaggio continua verso Mikumi  e il National Park.. Le palme vengono sostituite da file infinite di Baobab, di tutte le taglie e forme. Attorcigliati, verdi, secchi, dai tronchi più o meno massicci. Maestosi e placidi. Ai bordi della strada, i babbuini ci guardano tranquilli. E poi piano, avvicinandosi a Iringa, il paesaggio cambia ancora. Le montagne si fanno più rocciose, punteggiate da grandi pietre tondeggianti. Ancora più avanti compaiono i girasoli. Campi infiniti di girasoli e mais. Ci siamo quasi. Arriviamo a Iringa verso le 5 e mezza del pomeriggio. In ritardo sulla tabella di marcia, ma che importa. L’aria è fresca, e mi stupisco a camminare per questa città che ha cosi poco di tanzaniano. Costruita in pendenza, le strade ordinate, casette dai tetti a punta, caffè per turisti e espatriati. Un sapore diverso nell’aria, un po’ di montagna. Anche la gente è diversa. Un nero più intenso della pelle, tratti diversi. Mi incanto a guardare volti bellissimi. Ci perdiamo mille volte per raggiungere la guest house e cosi riusciamo a vedere il mercato generale, dove troneggiano enormi ananas maturi che mi fanno quasi commuovere, i giardini pubblici con il pratino all’inglese e le targhe a commemorare i morti delle ultime guerre: le due guerre mondiali certo ma anche le rivolte dei capi locali contro l’amministrazione tedesca, la torre dell’orologio, il Masai market, dove tra stradine di fango e bottegucce di legno puoi trovare i famosissimi (ameno per me) animaletti di stoffa e collane masai e borse e utensili da cucina in legno.

Il giorno dopo la nostra meta è Isimila, 30 km dal centro di Iringa. Per chi non lo conoscesse, come me prima di venire qui, si tratta di un sito naturale in cui l’acqua ha scavato le rocce creando sorte di canyon suggestivi. Quella che un tempo era una valle che racchiudeva un lago è oggi un insieme di pareti e colonne di rocce scavate e “intagliate” dall’acqua. Lasciamo la guest house sotto un cielo che promette pioggia. Arriviamo allo stand degli autobus e mi metto a cercare un dala dala. Anche qui, alla fine, dopo le solite contrattazioni troviamo un pulmino che per 1000 scellini sembra vada a Isimila. Siamo stipati in 25 su un pulmino da 10 posti. Bambini, signori in giacca e cravatta che vanno in giro per affari, donne con cesti di verdura, ce n’è per tutti i gusti. Sotto un cielo sempre più nero usciamo da Iringa e percorriamo un saliscendi di strade in mezzo a monti e campagna. Il pulmino ci scarica davanti a un campo di girasoli e l’autista ci dice: ecco Isimila. Scendiamo e ci addentriamo in mezzo ai campi, tra girasoli
al
ti 2 metri, case di argilla e contadini che lavorano i campi con i cappelli di paglia in testa e un saluto cordiale al nostro passaggio. Arriviamo all’ingresso del parco. Per i residenti, o per chi come noi ha il resident permit, l’ingresso costa 1000 scellini. A fronte dei 20000 richiesti agli stranieri. Una studentessa di 19 anni, Elizabeth, ci fa da guida tra le pareti rocciose e i rigoli di acqua biancastra. Si muove sicura nel fango, con le infrandito ai piedi e un ombrello enorme in mano che ha preso per ripararci dalla pioggia che cominica a cadere fina. Sembra di entrare in un modo incantato. Mi sono sempre immaginata cosi il deserto dei tartari di Buzzati. Una landa desolata e brulla, dura e imponente, con qualcosa di fascinoso. Riusciamo a tornare a Iringa prendendo al vole un autobus che viene da sud , da Njombe e che si ferma all’ultimo vedendoci sulla strada. Sotto una pioggia battente passiamo il resto della giornata a visitare negozietti di souvenirs e artigianato, come il Matumaini Centre, un centro di formazione per ragazze madri, che ha iniziato finanziando corsi di formazione professionale gratuiti e che poi ha iniziato a vendere i prodotti realizzati dalla ragazze: bellissime coperte reliazzate con stoffe locali, borse, vestiti, grembiuli da cucina, e i miei adorati pupazzetti raffiguranti elefanti, leoni e giraffe.

La mattina dopo, domenica di Pasqua, sveglia all’alba. Abbiamo l’autobus alle 6 di mattina. Un’altra camminata nell’oscurità. Adoro questi momenti, in cui le città si svegliano, i negozi vengono aperti piano piano, comincia a salire il brusio del giorno. Lo stand è già in fermento, tante corriere scaldano già i motori per la partenza. Pronti per un altro viaggio in questa Tanzania che mi ha fatto scoprire e apprezzare sempre di più la bellezza di questi viaggi infiniti, condivisi, con gli autisti che ti aspettano, che ti fanno salire in corsa, che ti gridano dietro per la tua lentezza o per i troppi bagagli ma che poi ti aiutano a caricare anche i sacchi di patate e carbone. Forse sono solo una irriduvcibile sentimentale, ma non riesco a non amare questi viaggi che ti lasciano stremata, questi viaggi fatti di colori e odori di una vita che si impone, di autisti e passeggeri uniti in una sorta di fratellanza segreta, che ti offrono banane fritte comprate per strada da sacchettini di plastica nera; di imprevisti, di motori che si rompono lungo la strada, di soste non previste, con la gente che ne approfitta per comprarsi una pannocchia o cercare un bagno. E sempre questi cieli meravigliosi, enormi, che ti lasciano sempre stupefatto, sia che piova che ci sia il sole. Un nuovo arrivo a Dar, sotto la pioggia, il caos della metropoli, la stanchezza e il mal di testa. E il sorriso sulle labbra per tutto quello che ho visto e conosciuto. Per essere partita ancora una volta.

Scusate la lunghezza di questo post, scusate il mio divagare. Questo post è come un viaggio in autobus in Tanzania.  Parti, e poi il viaggio si costruisce per strada, si allunga, fa giravolte, e non sei più tu che guidi.

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