Ultima settimana in Tanzania. C’è cosi tanto che non ho
visto, che non so. Che a volte rischia di fami dimenticare tutto quello che
invece ho avuto la fortuna di vedere, di incontrare, di conoscere. La famosa
questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Con le ultime briciole di
forza che ancora mi restano ho sfruttato i giorni di Pasqua per un viaggetto al
sud, per vedere un po’ di quella Tanzania profonda, cosi lontana dalla costa e
dal mare di Bagamoyo di cui in questi mesi ho sempre sentito solo parlare.
IRINGA. Un nome che mi è finito nelle orecche cosi tante volte in questi mesi. Una
parola, un posto infilato in discorsi con amici e conoscenti, con persone
incontrate per caso in questa mia Tanzania che è stata tutto un incontro
casuale.
I viaggiatori salgono alla spiacciolata e l’autobus si riempe di risate e parole e abbracci e mani tese a passarsi borsoni di pastica e zaini usati. Partiamo. Uscire da Dar è come sempre complicato. Passiamo un’ora incollonnati. Macchine e autobus di tutte le forme e misure. Tra noi, passano svelti i venditori ambulanti, nel caso tu non fossi riuscito a rifornirti prima di ogni genere di prima necessità. Giornali, occhiali da sole, torce, e poi biscotti, ancora tortine, acqua e soda. E poi via, verso sud. Il viaggio è meraviglioso. Tutto scintilla sotto un sole pulito e fresco. Kibaha, Chalinze, posti che conosco per i monitoraggi di progetto ma che oggi hanno un sapore un po’ diverso, il sapore dei saluti. Il sapore dei ringraziamenti. Per essersi fatti conoscere e scoprire da me. E poi via ancora verso Morogoro. Compaiono le prime colline e montagne dietro il profilo delle palme. Verdissime. Uno spettacolo bellissimo. Arrivare a Morogoro è entrare dentro il caos delle città mercato, coloratissime, vive. Banchi di frutta e verdura che a Bagamoyo non vedo da dicembre, per via delle piogge. File di pomodori, patate, cavoli, ma anche manghi, avocadi, cocomeri, ananas fuori stagione. I venditori ambulanti battono forte contro i portelloni dell’autobus per attirare la nostra attenzione. Arachidi, noccioline, ancora gli intramontabili biscotti e tortine, pane in cassetta, pannocchie bollite, sambosa, cipolle vendute in sacchettini di plastica, acqua e succhi e occhiali da sole. Chiedo delle noccioline e il ragazzotto invece che darmi il resto mi rifila due pacchetti non richiesti al posto di uno solo. Dopo 8 mesi riesco ancora a farmi fregare. Il viaggio continua verso Mikumi e il National Park.. Le palme vengono sostituite da file infinite di Baobab, di tutte le taglie e forme. Attorcigliati, verdi, secchi, dai tronchi più o meno massicci. Maestosi e placidi. Ai bordi della strada, i babbuini ci guardano tranquilli. E poi piano, avvicinandosi a Iringa, il paesaggio cambia ancora. Le montagne si fanno più rocciose, punteggiate da grandi pietre tondeggianti. Ancora più avanti compaiono i girasoli. Campi infiniti di girasoli e mais. Ci siamo quasi. Arriviamo a Iringa verso le 5 e mezza del pomeriggio. In ritardo sulla tabella di marcia, ma che importa. L’aria è fresca, e mi stupisco a camminare per questa città che ha cosi poco di tanzaniano. Costruita in pendenza, le strade ordinate, casette dai tetti a punta, caffè per turisti e espatriati. Un sapore diverso nell’aria, un po’ di montagna. Anche la gente è diversa. Un nero più intenso della pelle, tratti diversi. Mi incanto a guardare volti bellissimi. Ci perdiamo mille volte per raggiungere la guest house e cosi riusciamo a vedere il mercato generale, dove troneggiano enormi ananas maturi che mi fanno quasi commuovere, i giardini pubblici con il pratino all’inglese e le targhe a commemorare i morti delle ultime guerre: le due guerre mondiali certo ma anche le rivolte dei capi locali contro l’amministrazione tedesca, la torre dell’orologio, il Masai market, dove tra stradine di fango e bottegucce di legno puoi trovare i famosissimi (ameno per me) animaletti di stoffa e collane masai e borse e utensili da cucina in legno.
al
ti 2 metri, case di argilla e contadini che lavorano i campi con i cappelli di paglia in testa e un saluto cordiale al nostro passaggio. Arriviamo all’ingresso del parco. Per i residenti, o per chi come noi ha il resident permit, l’ingresso costa 1000 scellini. A fronte dei 20000 richiesti agli stranieri. Una studentessa di 19 anni, Elizabeth, ci fa da guida tra le pareti rocciose e i rigoli di acqua biancastra. Si muove sicura nel fango, con le infrandito ai piedi e un ombrello enorme in mano che ha preso per ripararci dalla pioggia che cominica a cadere fina. Sembra di entrare in un modo incantato. Mi sono sempre immaginata cosi il deserto dei tartari di Buzzati. Una landa desolata e brulla, dura e imponente, con qualcosa di fascinoso. Riusciamo a tornare a Iringa prendendo al vole un autobus che viene da sud , da Njombe e che si ferma all’ultimo vedendoci sulla strada. Sotto una pioggia battente passiamo il resto della giornata a visitare negozietti di souvenirs e artigianato, come il Matumaini Centre, un centro di formazione per ragazze madri, che ha iniziato finanziando corsi di formazione professionale gratuiti e che poi ha iniziato a vendere i prodotti realizzati dalla ragazze: bellissime coperte reliazzate con stoffe locali, borse, vestiti, grembiuli da cucina, e i miei adorati pupazzetti raffiguranti elefanti, leoni e giraffe.
La mattina dopo, domenica di Pasqua, sveglia all’alba.
Abbiamo l’autobus alle 6 di mattina. Un’altra camminata nell’oscurità. Adoro
questi momenti, in cui le città si svegliano, i negozi vengono aperti piano
piano, comincia a salire il brusio del giorno. Lo stand è già in fermento,
tante corriere scaldano già i motori per la partenza. Pronti per un altro
viaggio in questa Tanzania che mi ha fatto scoprire e apprezzare sempre di più
la bellezza di questi viaggi infiniti, condivisi, con gli autisti che ti
aspettano, che ti fanno salire in corsa, che ti gridano dietro per la tua
lentezza o per i troppi bagagli ma che poi ti aiutano a caricare anche i sacchi
di patate e carbone. Forse sono solo una irriduvcibile sentimentale, ma non
riesco a non amare questi viaggi che ti lasciano stremata, questi viaggi fatti
di colori e odori di una vita che si impone, di autisti e passeggeri uniti in
una sorta di fratellanza segreta, che ti offrono banane fritte comprate per
strada da sacchettini di plastica nera; di imprevisti, di motori che si rompono
lungo la strada, di soste non previste, con la gente che ne approfitta per comprarsi
una pannocchia o cercare un bagno. E sempre questi cieli meravigliosi, enormi,
che ti lasciano sempre stupefatto, sia che piova che ci sia il sole. Un nuovo
arrivo a Dar, sotto la pioggia, il caos della metropoli, la stanchezza e il mal
di testa. E il sorriso sulle labbra per tutto quello che ho visto e conosciuto.
Per essere partita ancora una volta.
Scusate la lunghezza di questo post, scusate il mio
divagare. Questo post è come un viaggio in autobus in Tanzania. Parti, e poi il viaggio si costruisce per
strada, si allunga, fa giravolte, e non sei più tu che guidi.
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