domenica 27 aprile 2014

ASANTE SANA TANZANIA, TUTAONANA TENA. Parto e porto con me..

Stasera parto, lascio Bagamoyo, la Tanzania. Si torna a casa. in Italia. Le valigie sono fatte. Riempire i 28kg a disposizione è stato veloce. 

Ieri mi sono presa un po’ di tempo, sono scesa in spiaggia e mi sono concessa una lunga passeggiata a piedi scalzi percorrendo una strada fatta milioni di volte in questi mesi, ma che ora ha un sapore un po’ diverso. Il sapore dei saluti. Mi sono tolta gli occhiali, talmente scegnati dopo questi 8 mesi di Tanzania da essere ormai inutilizzabili. Me li sono tolta per non essere distratta da volti e dettagli e farmi invece assorbire da quest’aria, per respirarla fino all’ultimo.

Ho pensato alla Tanzania. Ho provato a pensare a questa partenza che non riesco a mettere a fuoco. Ci ho provato, ma davvero non riesco a realizzare che da domani questa non sarà più la mia quotidianeità. Niente lacrime, niente magone, niente addii strappalacrime. Mi sento talmente piena, talmente riconoscente, che non c’è spazio per altro. So che la botta verrà fuori più avanti. Ma per adesso ho scelto di fare quello che la Tanzania mi ha insegnato

La Tanzania mi ha insegnato a ringraziare la vita come mai prima. La vita che non smette mai di provocarti, di punzecchiarti, di metterti alla prova. Come un bambino che non ti lascia stare anche quanto tu sei stanco morto e vorresti solo lasciarti andare. Chiede attenzione. Vuole vederti reagire. Tante volte sono stata sul punto di mandarla a quel paese in questi mesi questa vita. E alla fine non sono mai riuscita a farlo. Perchè la vita è capace di stupirti ogni giorno. Di regalarti sempre molto più di quello che tu saresti mai in grado di procurarti da solo. La Tanzania mi ha insegnato a  vivere ogni giorno fino in fondo, senza voler riempire ad ogni costo ogni minuto con impegni e programmi dettagliati, ma semplicemente accogliendo quello che ogni giornata può darti, mpaka usiku, fino a notte, perchè può sempre succedere qualcosa, naturalmente accettando i cambi di programma, l’inatteso, le soprese, le cose che non vanno come vuoi tu. La Tanzania mi ha costretto a uscire da me stessa, a scoprire che il mio modo di pensare era solo uno dei tanti, e che la scelta questa volta era o trincerarmi in me stessa o aprirmi al mondo, alle sue condizioni. In silenzio, ascoltando.

E adesso parto. Parto e porto con me questa giornata di cielo limpido e blu che fa presagire la fine della stagione delle piogge, segnato da nuvole gonfie e vive. Questo mare cristallino che dopo i mille cambi di corrente e di maree nelle ultime settimane è tornato ad essere quello di settembre, di quando sono arrivata, calmo e placido, un mare che mi aveva lasciato senza fiato. Le conchiglie dai mille colori e i granchietti che entrano e escono da buchi invisibili in mezzo alla sabbia facendoti il solletico sotto i piedi.

Parto e porto con me l’intimità dei pasti condivisi, con colleghe, amici, vicini di casa. L’ugali o il riso mangiato con le mani dallo stesso piatto, per terra seduti vicini sulla stessa stuoia, con le mani che si sfiorano e si incastrano. Il pesce fritto comprato al mercato e mangiato da un comune sacchetto di plastica. La colazione consumata insieme alle colleghe, sedute sui freschi pavimenti di terra battuta del vecchietto che tutte le mattine ci prepare bagia e salsa di cocco e ci apre le porte di casa, le schiene appoggiate alle pareti. Un piatto di patatine fritte condiviso o una tazza di zuppa di pesce bollente servita in tazze di plastica dalla dubbia igiene, bevuta in piedi con un amico, per strada, davanti a uno dei tanti banchetti che rendono viva con i loro fuochi e i loro odori la sera di Bagamoyo. Il chapati, imparato a cucinare con la padrona di casa.
Parto e porto con me il suono degli ngoma, i tamburi tradizionali, e delle chitarre che tutti qui sanno suonare, e queste voci dolcissime e penetranti dove il ritmo africano si fonde con la malinconia del mondo arabo. Canzoni cantate con la facilità con cui si fa un sorriso o scende una lacrima, per strada, in spiaggia, mangiando arachidi abrustoliti in padella.

Parto con la pelle bruciata dal sole, spalle e collo abrustoliti da un sole che quando batte non ha pietà di nulla, diretto, intenso e violento come questo continente. Piedi in cui si è impresso a fuoco il segno dei sandali a ricordarmi i chilometri di strada percorsi a piedi, in monitoraggio in giro per il distretto di Bagamoyo camminando tra palme e banani, o in mezzo alla polvere, al fango, alla sabbia, al mare. Capelli cresciuti in fretta e senza controllo, ribelli e schiariti dal sale e dal sole.

Parto con l’odore di riso cotto nel cocco, frutta macerata al sole, patatine fritte e pesce lasciato a seccare sulla sabbia. Odore di sapone di bucato fatto a mano, di spezie e di pelle diversa dalla mia.
Parto con in bocca il sapore e già la nostalgia di cibi che farebbero impallidire il mio medico e che credo abbiano messo a dura prova il mio fegato. Il croccante di arachidi e zucchero comprato a 100 scellini a pezzo, i vitumbua caldi e umidi d’olio, l’urojo - la zuppa zanzibarina con polpettine di patate e di cereali, l’ukuajo- la salsa di tamarindo che accompagna le patatine fritte, e il mio adorato “chapati – mchicha”: versione tanzaniana di piadina e bietole cotte nel cocco, che a tutti lasciano il retrogusto di sabbia e sassolini ma di cui io vado matta.

Parto con in valigia molti meno vestiti di quando sono arrivata, la metà ho dovuto buttarla perchè letteralmente consumata. In cambio, porto con me kitenge e kanga coloratissimi, regali d’addio che racchiudono storie e ricordi, e vestiti fatti di quelle stesse stoffe.

Parto con il rumore del mare nelle orecchie e nel cuore, la luce delle mille stelle di questo cielo nerissimo e lo scrosciare di questa pioggia infingarda che comincia a cadere all’improvviso, quando un attimo prima splendeva il sole. Il rombo dei pikipiki nelle orecchie e la polvere sempre attaccata alla pelle. L'uccellino che ha fatto il nido nel soffitto della chiesa in cui vado ogni domenica e il cui entrare e uscire mi hanno distratto fino all'ultimo giorno.

Parto con un ringraziamento ininterrotto nel cuore per tutto quello che ho ricevuto, per quello che ho visto, per le persone che ho incontrato, per quello che ho imparato. Parto con la convinzione di essere fortunatissima e che la vita è un dono meraviglioso. Ecco si, la Tanzania mi ha ricordato ancora una volta l’importanza del sorridere alla vita.

Parto con nelle orecchie le parole di questa canzone di Mzungo Kichaa, Ndugo na Jirani – Parenti e amici
Twalumba kabotu / Twalumba kabotu mama… baba
“Ndugu zangu, nawashukuru sana / Tumepambana katika ulimwengu / Muda umefika wa kuachana / Tuagane kwa furaha sitaki lawama / Ninakokwenda nayo nikuzuri / Majani yanaota na maji yanakwenda / Nitafurahi ukicheka kuliko kusononeka / Kilatukiachana tutaonana tena
Ninaenda zangu, nina kimbia / Ukiniomba kubaki nita anza kulia
Ndugu na jirani, rafiki na mtu flaani / Muko na mimi moyoni / Mola tu ndyio ana jua / Ndiyo maana tusaidiane / Tuheshimiane / Kuna siku tuta achana, peponi je tutaonana? / Ulimwenguni haturudi tena / Tupendane tukiwa hai”
Asante sana Tanzania. Mungo akipenda tutaonana tena. Grazie mille Tanzania, a Dio piacendo, ci vedremo ancora.

1 commento:

  1. grazie, buon rientro, ho sempre letto con passione i tuoi ... sguardi .... spero che ci potremo scrivere maurizia.barbieri@hotmail.it se hai un indirizzo, mandamelo, mi farebbe piacere a presto, un abbraccio, mauri

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